Il calo del “famigerato” spread (la differenza di interessi fra i titoli italiani e i Bund tedeschi) al di sotto dei 100 punti, apre due questioni essenziali: la prima è se stiamo uscendo realmente dalla tremenda crisi economica che dal 2008 ci ha portati a regredire di circa 15 anni rispetto al livello della nostra ricchezza, con una retromarcia inarrestabile: -1,2 nel 2008, crollo nel 2009 a -5,5%, boccata d’ossigeno nel 2010 e nel 2011 (+1,8 e +0,4) per poi riscendere nel 2012 (-2,4) nel 2013 (-1,5) e nel 2014 (-0,5).
In questo quadro la previsione di un + 0,1% nel primo trimestre 2015 ha rinfocolato nuovi ottimismi, tutti da verificare.
La seconda questione riguarda l’influenza delle lobby finanziarie internazionali non solo sulla nostra economia (come sarebbe normale) ma anche sulle scelte politiche e sulla sopravvivenza dei governi.
Andiamo per ordine: siamo in ripresa e, se è così, di chi è il merito?
Per capire di più dobbiamo trasferirci a Francoforte in Germania, dove non a caso ha sede la Banca centrale Europea. In questo momento il Presidente (Super) Mario Draghi è probabilmente l’uomo più potente dell’Unione Europea, dopo Angela Merkel.
Approfittando della sua riconosciuta competenza che supera le tradizionali diffidenze della finanza internazionale verso gli italiani, l’ex governatore di Bankitalia è riuscito a far trangugiare alla banca Centrale tedesca il piano di acquisti dei titoli di Stato dei Paesi in difficolta per un ammontare di oltre 1000 miliardi di euro. Draghi ha puntato sui possibili sviluppi della crisi greca e sul malumore di Francia e Italia, non tanto per tamponare il costo dei debiti pubblici, quanto per svalutare l’euro nei confronti di dollaro, yen e yuan, aumentando la competitività delle merci europee.
Tale manovra, unita al tasso di sconto mantenuto al minimo storico dello 0,25%, ha aumentato la liquidità delle banche e (teoricamente) delle imprese. Se aggiungiamo a questo contesto il notevole calo del costo del petrolio, per la decisione dell’OPEC di non ridurre la produzione per mettere in difficoltà i colossi americani, abbiamo trovato i motivi della “ripresina”.
Non è un caso che l’UE sia stata disposta a mettere sul piatto 1000 miliardi di euro e abbia invece mercanteggiato come al suk, per i pochi miliardi che chiedeva Tsipras in Grecia: nel primo caso sono soldi che, comunque, transitano dalle banche, nel secondo era in gioco la politica dell’austerità che non può subire deroghe.
A pagare i costi dell’Unione devono essere i cittadini e non la finanza internazionale.
Cosa c’entrano con tutto questo Renzi, il “jobs act” e la riforma elettorale? Assolutamente niente.
Ammesso e non concesso che ci sia un effetto positivo degli atti di questo governo, non si potrà registrare prima di otto/dodici mesi nella migliore delle ipotesi.
Parlavamo anche dello spread: è ormai chiaro che questo parametro non è commisurato ai dati reali dell’economia. Rispetto al naufragio dell’era Berlusconi, che è stato fatto fuori proprio dallo spread oltre quota 500, sono peggiorati tutti gli indicatori: PIL, debito pubblico, tasso di disoccupazione.
Eppure magicamente lo spread, che dovrebbe misurare il grado di fiducia dei mercati internazionali su una economia, è sceso sotto quota 100, quasi che l’Italia non fosse quel Paese sull’orlo del baratro che tutti, purtroppo conosciamo.
La conclusione è una sola: la lobby internazionale della finanza manovra lo spread per sostenere o disarcionare i governi: in questo momento Renzi è il garante delle strategie politiche europee: taglia i costi della politica, taglia i costi della Sanità, taglia la spesa sociale, riduce i trasferimenti agli Enti Locali (e di conseguenza li costringe ad alzare le imposte) e promette crescita. Solo che i tagli sono atti concreti che incidono sulla nostra vita quotidiana, la crescita una sorta di “araba fenice” che dipende solo in minima parte dalle politiche dei governi nazionali. L’UE vuole Renzi e noi ce lo sorbiremo fino in fondo.
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