Samuele Bua, suicida in carcere a 29 anni: la famiglia chiede verità
Samuele Bua era un giovane che aveva bisogno di aiuto, un’assistenza psicologica forse psichiatrica, non certamente di essere rinchiuso in isolamento nel carcere Pagliarelli di Palermo dove lo scorso 4 novembre si è tolto la vita con i lacci della sue scarpe.
Sono troppi i punti oscuri della vicenda, le domande senza risposta e le responsabilità ancora da accertare, e per questo la famiglia di Samuele, assistita dall’avvocato Giorgio Bisagna, ha sporto denuncia perchè sia fatta piena luce sulla morte del ragazzo.
Samuele era finito dietro le sbarre dopo una denuncia a seguito di un violento litigio con la madre a causa del suo temperamento nervoso ed irascibile: “Ma mio figlio era un ragazzo dal cuore buono” spiega la madre, “Quel giorno i vicini sentendo il trambusto hanno chiamato i carabinieri e Samuele così è finito in carcere, ma non era lì che doveva stare” spiega la signora Lucia Agnello.
Samuele Bua, otto mesi senza verità, una manifestazione questa mattina davanti il carcere Pagliarelli
“Abbiamo bisogno di sapere la verità, dopo otto mesi non abbiamo avuto nessuna informazione sull’esito dell’autopsia, – spiega Rosalinda, la sorella di Samuele – come si può morire in una cella d’isolamento con dei lacci che non avrebbe dovuto avere a disposizione? Un ragazzo che doveva essere sorvegliato h24. Avevamo ottenuto già il consenso per un trasferimento – continua Rosalinda Bua – ma si è perso troppo tempo, mio fratello doveva essere trasferito al più presto in una struttura adeguata a lui”.
I familiari di Samuele Bua non si arrendono. E questa mattina hanno manifestato pacificamente davanti al carcere di Pagliarelli di Palermo, per chiedere verità e giustizia sulla morte del loro congiunto. Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, ha espresso la propria vicinanza alla famiglia: “Antigone è vicina ai familiari di Samuele nella ricerca di una verità che, ancora, a distanza di otto mesi non emerge”.
Samuele Bua soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione, la diagnosi era di schizofrenia e turbe comportamentali, come spiega la famiglia.
Era un ragazzo difficile ma aveva bisogno di aiuto, di un sostegno psichiatrico, forse di essere ricoverato in una struttura adeguata, ma certamente non della detenzione carceraria, una condizione dura, spesso intollerabile e ai limiti del rispetto della dignità umana anche per chi non è fragile come Samuele.