ROMA (ITALPRESS) – Secondo il “Profilo della Sanità 2019” dell’Italia pubblicato dall’OCSE e dalla Commissione Europea nel 2020, il numero dei medici in Italia, è superiore alla media dell’UE: 4,0 rispetto al 3,6 per 1.000 abitanti nel 2017 (ma calano i medici di famiglia e, comunque, la loro età media è superiore ai 55 anni) mentre si impiegano meno infermieri rispetto a quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale (a eccezione della Spagna) e il loro numero è notevolmente inferiore alla media dell’UE (5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro gli 8,5 dell’UE).
Secondo i dati Eurostat, l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea, nel 2016, l’Italia aveva 557 infermieri ogni 100.000 abitanti (negli anni successivi sono diminuiti), mentre sei Paesi dell’Ue 28, tra cui i maggiori partner (come Germania e Francia), superavano i 1.000 (dai 1.172 del Lussemburgo ai 1.019 della Francia) e altri sette, tra cui il Regno Unito, erano comunque tra i 981 infermieri per 100.000 abitanti della Danimarca e i 610 dell’Estonia.
Anche volendo solo raggiungere il livello medio di questi Paesi, in Italia mancherebbero tra i 50 e i 60 mila infermieri, sottolinea Fnopi, Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. Per farlo ci si dovrebbe adeguare all’Europa, prevedendo più infermieri in formazione e occupazione, con evidenti progressi nell’eliminazione della carenza globale entro il 2030.
La Commissione Europea sottolinea che tutti i Piani nazionali per la realizzazione della copertura sanitaria universale formulano proposte specifiche per migliorare e sviluppare il ruolo degli infermieri come professionisti della salute più vicini alla comunità. Almeno il 75% dei Paesi ha un infermiere con responsabilità di “alta gestione in materia di salute”: quel che serve è una rete globale di leadership infermieristica.
Dall’ultimo contratto, prima di quello del 2018, per ragioni di contenimento economico, si sono susseguiti numerosi blocchi del turnover (il ricambio fisiologico del personale) superati solo dai provvedimenti introdotti dal DL Crescita nel 2019.
Tra i provvedimenti e gli interventi in emergenza che si sono susseguiti nel periodo della pandemia da COVID-19, uno in particolare, il decreto Rilancio (legge 44/2020), ha previsto l’integrazione degli organici infermieristici, prima con contratti flessibili, poi, dal 2021, con contratti a tempo indeterminato. In particolare, per quanto riguarda l’Infermiere di Famiglia/Comunità, che ha un ruolo forte sul territorio anche secondo le previsioni del Recovery Plan inviato a Bruxelles.
Tuttavia, l’intervento, seppure assolutamente meritorio, è parziale e copre le necessità legate all’emergenza, perché, parametrando il numero di cronici e non autosufficienti alle necessità espresse di assistenza territoriale, la FNOPI ha quantificato un numero ottimale a regime di Infermieri di Famiglia/Comunità circa doppio rispetto a quello finora programmato.
L’Infermiere di Famiglia/Comunità è un professionista della salute che riconosce e cerca di mobilitare risorse all’interno delle comunità, comprese le competenze, le conoscenze e il tempo di individui, gruppi e organizzazioni della comunità per la promozione della salute e del benessere della stessa, cercando di aumentare il controllo delle persone sul loro benessere. Secondo le Regioni, è un punto di riferimento per tutta la popolazione (ad es. per soggetti anziani, per pazienti cronici, per istituti scolastici ed educativi che seguono bambini e adolescenti, per le strutture residenziali non autosufficienti), con particolare attenzione alle fragilità. Inoltre, in particolari condizioni epidemiologiche (quale, appunto, quella da COVID-19), il suo intervento può essere orientato alla gestione di un settore di popolazione specifica (ad es. per il tracciamento e monitoraggio dei casi, coadiuvando le USCA, in collaborazione con Medici di Medicina Generale e Igiene Pubblica, nonché nelle campagne vaccinali).
Uno dei problemi maggiori da affrontare rispetto alla crescita e alle aumentate responsabilità e specializzazioni della professione infermieristica, è sicuramente quello delle retribuzioni.
Oggi questa voce è inserita del più vasto contenitore del “personale non dirigente”, anche se a molti infermieri sono affidati ruoli di coordinamento e di responsabilità anche di Distretti sanitari. Anche da questo nasce l’esigenza di un’area infermieristica separata, in cui sia possibile riconoscere i diversi livelli di responsabilità e di merito e prevederne un’adeguata, conseguente, retribuzione, sottolinea ancora Fnopi: “Resta il dato che gli infermieri italiani sono i meno pagati tra quelli degli Stati maggiormente industrializzati in Europa e in tutto il mondo occidentale”.
Per quanto riguarda la pandemia, gli infermieri sono la categoria di personale sanitario maggiormente contagiato da Sars-Cov-2: ovviamente, soprattutto per l’altissimo livello di prossimità con i malati che non lasciano mai soli.
Con la comparsa dei vaccini (gli infermieri sono stati il primo personale sanitario a essere vaccinato), si registra una flessione delle infezioni: un dato che, da una parte, è positivo, vista l’attuale carenza di organici nei servizi sanitari, dall’altra, lo è ovviamente per il minor numero di soggetti coinvolti nell’infezione e, quindi con minori conseguenze personali e minori rischi per i pazienti a cui non possono fare a meno di essere vicini.
Per quanto riguarda i decessi degli infermieri, si nota un numero maggiore in particolare (ma non solo) nelle Regioni soggette alla prima fase della pandemia, quando, cioè, non c’erano sufficienti dispositivi di protezione individuale per garantire la sicurezza.
Gli infermieri occupati sono circa 385 mila su oltre 454 mila iscritti agli Albi: rappresentano quasi la metà di tutti i professionisti che lavorano in sanità. La quasi totalità degli infermieri lavora nella Sanità e, di questi, 268 mila circa alle dipendenze del Servizio sanitario. Solo una piccola minoranza, 4 mila per l’esattezza, in classi di attività economiche diverse.
La grande maggioranza degli infermieri (77,7%) lavora nei servizi ospedalieri. Ci sono poi quelli in part time (soprattutto donne, 98%): 27.500 (ogni tre corrispondono a un’unità lavorativa full time).
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