Manoocher Deghati. Dal 6 settembre al 6 ottobre Palazzo Drago a Palermo ospiterà la mostra del World Press Photo, il più importante concorso di fotogiornalismo al mondo. 144 le immagini vincitrici che fanno tappa in Sicilia per il terzo anno consecutivo.
All’inaugurazione ha partecipato anche Manoocher Deghati, pluripremiato fotoreporter iraniano ferito in guerra, ex membro della giuria internazionale della fondazione olandese. Lo abbiamo intervistato, per chiedergli di parlarci della sua carriera come fotoreporter e dei suoi progetti attuali.
“Ho partecipato alla competizione e ho vinto il primo premio nel 1983, e il terzo nell’86. Dopodiché non ho più mandato candidature, ma ho continuato la mia relazione con la fondazione in qualità di giurato, insegnando masterclass ad Amsterdam, o prendendo parte alle inaugurazioni delle mostre in giro per il mondo, come oggi. Ho quindi una relazione abbastanza stretta con World Press Photo.”
“La storia delle migrazioni non è niente di nuovo. Noi siamo qui perché i nostri bis-bis-bis-nonni sono partiti dall’Africa e si sono spostati nel resto del mondo. Siamo il risultato dell’emigrazione umana, che continua ininterrottamente. Il problema è come questo fenomeno viene tratta attualmente. Io non riesco a capire chi è contro le migrazioni, e magari ha dei nonni emigrati in America, in Germania, ecc.
E chi dice che il problema sta nel grande numero di persone che vogliono entrare in Europa in questo momento, si sbaglia di grosso. Sapete quanti rifugiati sono arrivati in Libano? 2 milioni. In Giordania? 1 milione e mezzo. E allora quale può essere il problema sociale in Europa? Nel secondo dopoguerra, la Germania ha accolto tantissimi immigrati. Gli ha dato un lavoro, una casa, ed è stato un bene per tutti. I tedeschi erano contenti perché hanno avuto la manodopera di cui avevano bisogno, mentre gli immigrati hanno potuto costruirsi una vita in tranquillità. Quindi il problema sta nel gestire il fenomeno, non nel bloccarlo. Se si riesce ad affrontare la situazione in maniera umana, sparisce ogni difficoltà.”
“Io ho cominciato la mia carriera di fotoreporter durante rivoluzione iraniana, nel 1979. All’epoca studiavo a Roma, in una scuola di cinema, ma quando è cominciata la rivoluzione sono tornato in Iran. Il cinema lì non dava molte possibilità, così ho iniziato a scattare fotografie di quello che stava succedendo, in particolare delle manifestazioni in strada. Il mio primo lavoro è stato per Newsweek, e poi ho continuato con diverse agenzie di stampa internazionali. Dal 1985 ho fotografato la guerra in Iraq.
Solo che non andavo molto d’accordo con i fondamentalisti islamici. Negli anni mi sono ritrovato a fotografare esecuzioni pubbliche di prigionieri, ma anche di bambini. Vedevo ragazzini che ricevevano un’arma in mano e venivano mandati al fronte di guerra a combattere. Le mie foto venivano pubblicate all’estero, in Iran sarebbe stato impossibile. Da lì in poi ho avuto molti problemi: mi hanno arrestato, picchiato, e interrogato. Quante volte mi hanno sequestrato i rullini, o distrutto le macchine fotografiche. Fino a quando ho scoperto di essere stato inserito nella lista nera del regime, che corrisponde ad una condanna a morte. Così ho preso le mie cose e sono scappato in Francia. Ho viaggiato il mondo e vissuto in 12 paesi diversi, e dal 2015 mi sono stabilito in Puglia.”
“Adesso lavoro come fotografo freelance, e negli ultimi anni ho collaborato principalmente con National Geographic. Ho smesso di fotografare per le agenzie di stampa invece. Tutto è cambiato, e le agenzie non sono più come prima. Io consiglio ai giovani di rimanere freelance, anche se comporta lavorare di più, fotografare di più. Ad esempio a Francesco Bellina, che è stato mio assistente tre anni fa, ho sempre detto: “Dimentica le agenzie, e lavora. Vai, fai, fotografa”, e adesso potete vedere come sta lavorando bene e si sta costruendo un nome in questo campo. E non credete che la situazione sia molto migliore fuori dall’Italia, o in America. L’unica maniera di andare avanti nell’ambito del fotogiornalismo è spingere sempre di più.”
“Sono tante le cause che hanno contribuito. Le vendite sempre più scarse di giornali e riviste, ad esempio. O anche le fotocamere dei cellulari, ormai disponibili nelle tasche di qualsiasi giornalista. Ma in realtà il vero problema è stato un altro: dieci/quindici anni fa i grandi nomi dell’editoria hanno deciso di tagliare i fondi ai fotogiornalisti e ai giornalisti di inchiesta. È stata una scelta deliberata, perché il nostro lavoro è quello di denunciare. Non è vero che non hanno più soldi: i paparazzi per alcuni scatti vengono pagati ancora migliaia e migliaia di euro. Invece se vai tre mesi in Siria, e torni con delle foto incredibili, quanto ti pagano? Niente. Non è una questione economica, ma politica. Se vent’anni fa andavi per conto tuo in Afganistan a fotografare il conflitto, quando tornavi sicuramente trovavi qualcuno disposto a comprare il tuo servizio e a pagarlo bene. Adesso no.”
“No, è già l’ottava volta che la visito. È una città che mi affascina da sempre, da quando sono venuto nel 2016 per un servizio commissionato da National Geographic. Si trattava di un reportage sulle relazioni tra mondo musulmano e sud Italia, in particolare Sicilia e Puglia. In quell’occasione ho fotografato tutti quei monumenti che mostrano un’influenza musulmana nell’architettura, o nelle decorazioni.”
“Sono a Palermo non solo per World Press Photo, ma anche per fotografare le diverse comunità presenti in questa città. Io penso che Palermo possa diventare un esempio per il mondo intero: vedendo come qui vivono diverse comunità in perfetta tranquillità, mi sono interessato molto al tema. Da quanto sono arrivato ho fotografato la preghiera del venerdì in una moschea, e poi sono andato in una chiesa cattolica a fotografare un matrimonio. E nei prossimi giorni ho in programma altri momenti caratteristici ai quali voglio partecipare e immortalare.”
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