La teoria del tutto (The theory of everything), che ruota tutto attorno alla vita e al dramma dell’astrofisico inglese Stephen Hawking, affetto giovanissimo da una rara malattia neurologica, costretto sulla sedia a rotelle, e alla travagliata ed avvincente storia d’amore con una brillante studentessa di Lettere, sullo sfondo di una Cambridge surreale e fantastica, è un vero e proprio inno alla vita, alla forza e al coraggio, che, uniti insieme, ad una interpretazione fuori del comune, e alla bravura estrema dei protagonisti, fanno di un dato biografico eccezionale (Travelling to Infinity: my life with Stephen Hawing, vera ispirazione del film) la cifra di un capolavoro stilistico e narrativo. Birdman permettendo, avrebbe forse meritato più di un Oscar, oltre a quello come migliore attore.

Eddie Redmayne e Felicity Jones, insieme, Stephen e Jane Hawking, diretti magistralmente dal registra James Marsh, vincitore di Oscar con Man on Wire, documentario sulle Torri gemelle, sono i veri adquota di questa pellicola, troppo perfetti persino per risultare credibili in un film, brillano di luce propria e si ergono a indiscussi protagonisti di uno dei migliori biopic degli ultimi tempi, dopo A Beautiful mind, trionfatore degli Oscar 2001, e a cui La Teoria del tutto assomiglia per molti aspetti.

Mettere in scena non tanto la grandezza della teoria scientifica di Hawking sul tempo e sull’origine dei buchi neri e dell’universo, quanto il dramma e la sofferenza dell’uomo Hawkingperennemente sospeso tra la vita e la morte, tuttora in vita, ultrasettantenne e ancora voglioso di dimostrare al mondo la sua tesi: questo l’impegno più gravoso che James Marsh ha dovuto affrontare, con una gestazione infinita (quasi dieci anni complessivi tra sceneggiatura, stesura della trama e consenso dello scienziato), che giustificano il grande sforzo e l’energia profusi per vederlo in vita.

Ancora più impegnativi, quasi proibitivi i ruoli affidati a Redmayne e Felicity Jones nell’interpretazione di due personaggi ancora in vita, e che tuttora fanno discutere, l’uno, lo scienziato fuori del comune, l’altra, la moglie, donna con la d maiuscola, che non solo riescono ad esibirsi in performance commoventi e di altissimo livello, ma restituiscono altresì ai veri protagonisti della vicenda la dolcezza, l’ironia e la voglia di vivere insiti in essi.

Eddie Redmayne, vincitore del premio Oscar come migliore attore, per il tramite di una mimica facciale, studiata scrupolosamente nei minimi dettagli e per il mezzo di una tenerezza espressiva, che sembra paurosamente rubata al vero protagonista della vicenda, riesce ad esprimere quasi carnalmente il miracolo vivente di Stephen Hawing.

Dall’altro lato, Felicity Jones, nomination all’Oscar come migliore attrice, sfuggitole all’ultimo istante in favore di Julianne Moore, interpreta con la gravità e la fermezza di un’attrice ben più navigata il difficile ruolo di donna, madre di tre figli e moglie di un uomo costretto per quasi tutta la vita sulla sedia a rotelle. Lo fa con la delicatezza del suo sguardo femminile e con la tenacia di chi, nonostante le avversità della vita, dimostra con l’amore incondizionato per il marito e con la fede in Dio, che non bisogna arrendersi e che occorre lottare fino alla fine.

Gli occhi, gli sguardi e i visi penetranti dei protagonisti, che parlano da soli, sono il vero capolavoro della regia di Marsh, che dimostrano la sua predilezione per i documentari. Ma anche in questo caso, sceneggiatura e fotografia camminano di pari passo sotto lo sguardo sobrio e attento del regista britannico, che mette in scena un’ambientazione prevalentemente dominata da colori chiari e intensi, come l’azzurro del mare e il verde delle campagne inglesi.

Il ballo notturno sul ponte, la stupefacente visione dei fuochi d’artificio, insieme al bagliore delle luci riflesse, con un finale che riavvolge proustianamente i ricordi, richiamano alla vera lezione edificante della pellicola e alla sua dimensione surreale, che ne costituisce anche il sottotitolo: “La straordinaria storia di Jane e Stephen Hawing” o meglio ancora “Viaggiando verso l’infinito: la mia vita con Stephen” , che meglio descrivono, rispetto all’infelice traduzione italiana, la grandezza anche simbolica di questo film.