La crisi economica che dal 2008 penalizza l’Europa, ha fatto emergere il malcontento dei cosiddetti euroscettici che considerano la moneta unica come fonte di tutti i mali: ma siccome si tratta di movimenti xenofobi e neofascisti da un lato, e “nostalgico comunisti” dall’altro, la maggioranza dei cittadini europei è convinta che i guai economici, siano il corollario inevitabile dell’Unione Politica.
Pur nella difficoltà di trattare un tema così complesso senza sconfinare in una lezione di economia, proviamo a spiegare, senza pregiudizi politici che offuscano l’obiettività dell’analisi, come le lobby internazionali della finanza si siano impadronite delle istituzioni europee.
In principio fu l’Europa dei popoli: con tante città millenarie ridotte a cumuli di macerie dopo la Seconda Guerra Mondiale, i padri dell’Unione Adenauer, Schumann e De Gasperi sognarono un continente dove fossero bandite le guerre e prevalessero cooperazione e solidarietà: e dal 1951, anno di nascita del primo embrione (La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) fino al 1992, l’obiettivo fu sostanzialmente raggiunto.
Intuite le enormi potenzialità di potere e di guadagno insite nel percorso di unificazione, le lobby finanziarie cominciarono a lavorare sotto traccia, in principio con la costituzione del Sistema Monetario Europeo che introdusse i primi vincoli alle valute, poi con il progetto Euro, un capolavoro di strategia perseguito con lungimiranza e attenta programmazione.
C’è una data simbolo che segna ufficialmente il passaggio di consegne dalla Politica all’Economia: febbraio 1992, con l’approvazione del Trattato di Maastricht, che stabiliva parametri stringenti per aderire all’Unione Monetaria. Ma sotto il profilo operativo la data che conta fu il 20 settembre dello stesso anno, quando la Francia fu chiamata ad approvare con referendum il suddetto trattato. I sondaggi davano i “NO” in vantaggio e una bocciatura della Francia avrebbe significato il sotterramento degli accordo e l’addio alla moneta unica.
La speculazione internazionale prese allora di mira le monete deboli e lo stesso franco francese: lira, peseta e sterlina furono svalutate, la lira fu costretta ad uscire dallo SME e vi rimase fuori quattro anni con inflazione galoppante, mentre il franco si salvò per l’intervento massiccio della Bundesbank, visto che la Germania non voleva apparire da sola nel ruolo di guida, rinfocolando il sentimento antitedesco sempre latente.
Nel 1992 il cambio Lira-ECU (progenitore dell’Euro) era attorno a 1500; nel 1996 quando il ministro del Tesoro Ciampi andò a Bruxelles a trattare il rientro nello SME era sopra i 1900: si erano poste le basi per intaccare la ricchezza degli italiani, che all’ingresso dell’Euro nel 2001 si ritrovarono con gli stipendi già svalutati del 30% e con un aumento incontrollato dei prezzi, che trasformarono le vecchie 1000 lire in 1 Euro alla faccia del cambio ufficiale.
E la cosa paradossale è che quando Ciampi andò a trattare la nuova quotazione, cercò di svalutare la Lira ancora di più, seguendo le indicazioni delle grandi industrie esportatrici che volevano merci più competitive.
E se non ci fossero stati gli interessi contrapposti degli industriali tedeschi a spingere in senso opposto, avremmo avuto un marco oltre le 1000 lire e poi un Euro ben sopra le duemila lire.
Già nel 1996, quindi, la scelta di campo fu chiara: a pagare i costi dell’Unione dovevano essere i cittadini, non la finanza o la grande industria.
Anzi la scelta di procedere solo all’unificazione monetaria senza mettere insieme i bilanci (scelta di cui qualunque studente di Economia alle prime armi conosce gli svantaggi,) lasciò in mano alla Finanza internazionale l’arma della speculazione sui titoli di Stato dei Paesi più deboli.
Da allora il cerchio si è stretto sempre più sul collo dei cittadini con un circolo vizioso: parametri di Maastricht, patto di stabilità, investimenti pubblici bloccati, stagnazione e poi calo del PIL, aumento del debito, nuove tasse e nuovi tagli della spesa pubblica.
Ad aprile del 2012 la ciliegina finale: il pareggio di bilancio in Costituzione che blocca ogni possibilità di manovra: obiettivo finale la ricchezza degli italiani che, pur con le note incongruenze della statistica, supera gli ottomila miliardi di euro, ossia quattro volte il debito pubblico.
Dulcis in fundo, il ruolo delle banche e il “famigerato” spread: stabilito il principio che le banche non possono fallire, perché metterebbero in crisi il sistema produttivo (tesi tutta da dimostrare), i debiti delle banche sono stati pagati con i soldi pubblici, cioè nostri.
Quanto allo spread, è un’altra “invenzione” della finanza per assicurarsi il controllo sulla politica nei singoli Stati: se è vero che dovrebbe misurare la fiducia dei mercati sull’economia di ogni Paese, non si capisce perché ai tempi di Berlusconi era sopra 500 e adesso che tutti gli indicatori sono largamente peggiorati (PIL, debito pubblico, disoccupazione) è finito sotto quota 100. Evidentemente ai mercati e alla Finanza vanno bene solo i governi che accettano di scaricare sui cittadini i costi della crisi, a prescindere dal colore politico.
Si spiega così anche il ricatto alla Grecia di Tsipras, di cui la BCE si rifiuterà di acquistare i titoli, con il mega programma di Draghi da 1000 miliardi di euro, fino a quando “non farà le riforme” ossia i tagli alla spesa che sono la “linea Maginot” dell’Europa in mano alla finanza internazionale.
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