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Home - Cultura - Palermo - “Cosa Vostra”: Stato e mafia attraverso le opere di Pippo Fava

“Cosa Vostra”: Stato e mafia attraverso le opere di Pippo Fava

23 Maggio 2017 Cultura, Palermo

Dopo il grande successo ottenuto con “La bicicletta volante”, vincitore del premio Ninni Cassarà 2015 e finalista al premio Piersanti Mattarella 2016, Fabio Giallombardo torna con “Cosa Vostra”, un’antologia che ripercorre la storia del rapporto tra lo Stato e la mafia siciliana.

Un’antologia resa unica dal filo conduttore scelto dallo scrittore di origini palermitane per raccontare 150 anni di storia italiana: le opere di Pippo Fava, giornalista e scrittore ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio del 1984.

Perché intitolare il libro “Cosa Vostra”?

«Per rovesciare l’espressione Cosa Nostra, di cui ben pochi conoscono l’origine: sappiamo infatti da Buscetta e da altri pentiti che la formula serviva ai mafiosi italoamericani per distinguersi dagli altri criminali, soprattutto irlandesi ed ebrei, che svolgevano attività illecite sul suolo statunitense. Un orgoglio siciliano ed italiano, dunque, sempre a metà fra fierezza del crimine e complicità con chi ne trae beneficio. Di quest’ambiguità vive la mafia, che si trasforma nel corso dei decenni e che oggi è quanto mai potente proprio in quanto invisibile ed inafferrabile.
Io invece ho scritto l’antologia Cosa vostra per tutti quei cittadini italiani che non vogliono più riconoscersi in questa Cosa Nostra, ma che vogliono costruire un futuro che le sia del tutto estraneo: credo infatti che i siciliani e gli italiani tutti non potranno mai vivere in una vera democrazia finché non saremo davvero capaci di considerare come una “Cosa Vostra” l’intero complesso di interessi che tramite la corruzione e la violenza creano uno Stato parallelo a quello ufficiale, finché cioè non sarà chiaro che bisogna rompere ogni legame con questo insidioso e cangiante consorzio di criminali».

Come e quando è nata l’idea di un’antologia che ripercorresse la storia del rapporto tra Stato e mafia attraverso le opere di Pippo Fava?

«L’idea è data grazie ad una passione che mi ha portato nel corso degli ultimi vent’anni a raccogliere come un archeologo, l’opera di un grandissimo scrittore che era stato non solo ammazzato, ma anche dimenticato dal grande pubblico. Scavando nella sua poliedrica produzione ho scoperto che Fava aveva trattato tutti gli aspetti del fenomeno mafioso, restituendo un puzzle di straordinaria qualità storiografica, letteraria e per di più mantenendo sempre uno stile giornalistico assolutamente comprensibile e pertanto adatto alle nuove generazioni.
Ho scelto i brani che mi servivano a comporre un percorso storiografico coerente, ho aggiunto altrettanti passi di altri scrittori ed ho raccontato alle nuove generazioni 150 anni di connivenze, strusci, alleanze fra mafia e istituzioni italiane. L’antologia ragionata è infatti pensata anche come testo scolastico per le scuole superiori: è corredata da schede esplicative e note a piè di pagina per ciascun brano al fine di facilitare l’inserimento della lettura dell’opera all’interno delle attività didattiche, a sostegno dell’educazione alla legalità. Per i professori che adotteranno l’antologia verrà allestita, nel corso dell’estate 2017, sul sito della casa editrice Autodafé, una pagina d’accesso ai contenuti multimediali aggiuntivi (power point, approfondimenti analitici e relativi brani) e alle attività didattiche proposte per ciascun paragrafo (cineforum, percorsi interdisciplinari, verifiche misurabili, prove d’esame di Stato di tipologia B)».

Qual è stato il suo rapporto da lettore con questo autore?

«E’ un rapporto di grande ammirazione: da Fava ho imparato che le trame più complicate devono essere raccontate con parole semplici ed immediate. Che le figure retoriche possono servire a rendere più gustoso ed accattivante un testo (Fava ama molto l’iperbole) ma mai ad alterare la verità, che invece per lui era più un obbligo morale come uomo e come giornalista, era un’urgenza insopprimibile di denunciare, raccontare, comprendere, divulgare. L’idea dell’antologia è venuta fuori molto dopo. Il primo impulso è stato quello di riesumare un grande scrittore che la mafia era riuscita non solo ad eliminare fisicamente, ma addirittura ad infangarne la memoria: Fava era infatti un personaggio che anche il mondo aveva all’epoca amato (scrisse la scenografia del film Palermo or Wolfsburg, che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1980 e che ricalca il suo romanzo Passione di Michele), ma che la vorticosa girandola del mondo dello spettacolo sembrava aver rapidamente dimenticato, mentre la macchina del fango dei Cavalieri del lavoro da Fava denunciati aveva procurato di calunniare. Io ho cercato solo, nel mio piccolo, di risarcire questa gravissima ingiustizia».

Quali sono le opere di Pippo Fava che l’hanno maggiormente colpita?

«Il romanzo “Prima che vi uccidano” è un capolavoro: ha la forza del realismo verghiano ed al contempo la passione civile e l’acume dei migliori gialli sciasciani. Andrebbe letto in tutte le scuole siciliane, per fare capire ai nostri ragazzi da dove veniamo e cosa erano gli anni del secondo dopoguerra.
L’altro romanzo che amo particolarmente è “Gente di rispetto” perché contiene la più bella figura femminile dell’intera letteratura siciliana: si tratta di una maestra che si trova da sola, in un paese della Sicilia più arretrata degli anni ’70 e che deve combattere contro un sistema che la stritola, la lusinga, la usa, le vuole comprare l’anima. Ma lei vince, nonostante tutto, perché come diceva Gesualdo Bufalino “la mafia verrà vinta da un esercito di maestre elementari”.
Poi ci sono i fascicoli de I siciliani, che divorai a meno di quattordici anni, quando li scovai nella libreria della mia mamma e che hanno cambiato per sempre, senza che me ne accorgessi, il mio modo di vivere la passione civile, di leggere la realtà.
Ma ci sono anche le opere di teatro che sono una miniera inesauribile di personaggi grotteschi, di macchiette, di contrasti interiori irrisolti, di questioni di coscienza, il riverbero di fatti storici ben leggibili, dietro il velo della finzione letteraria.
Infine c’è un’opera “Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa” che Fava stava scrivendo mentre lo hanno ammazzato e che uscì dopo la sua morte. Aveva scritto cinquant’anni di storia della mafia, io ho creduto di interpretare la sua volontà facendogli raccontare, col mio contributo e con quello di altri autori, gli altri cento».

Analizzando l’opera di Fava in toto pensa che ci sia un aspetto poco conosciuto di questo grande giornalista ucciso dalla mafia?

«Sì, sono pochissimi quelli che conoscono a fondo l’opera di Fava: qualcuno ogni tanto ne loda il coraggio di giornalista, qualcun altro ne ricorda i drammi teatrali. Ma nella sua complessità è un autore semisconosciuto. Per fortuna la Fondazione Fava ha fatto e sta facendo un gran lavoro grazie alla professoressa Maria Teresa Ciancio e Francesca Andreozzi, la bambina di cinque anni che nel 1984 invano aspettò il nonno che doveva vederla recitare in teatro.
L’aspetto che secondo me non è mai stato sottolineato di Pippo Fava è la qualità storiografica delle sue intuizioni. Con Cosa vostra ho provato a confrontare le più importanti voci degli ultimi 40 anni (Salvatore Lupo, John Dickie, Paolo Borsellino, Lirio Abbate) con l’urlo profetico dell’opera di Fava».

Oggi ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Non crede che il Maxi processo e la morte di Falcone e Borsellino vadano a confermare le intuizioni di Fava riguardo i rapporti tra Stato e mafia?

«Assolutamente sì: Fava venne ucciso il 5 gennaio 1984, pochi mesi prima che Buscetta iniziasse a collaborare con Falcone. Mentre i suoi nemici si preoccupavano di infamarne la memoria, molte delle sue previsioni si avveravano: le deposizioni di Buscetta confermavano che Cosa Nostra ha una rigida struttura verticistica su base regionale e che i legami fra la mafia e i partiti di governo sono un aspetto vitale dell’organizzazione criminale. Gli eventi giudiziari degli anni successivi dimostrano che non solo moltissimi politici di spicco sono “punciuti”, ovvero parte integrante dell’associazione (Ciancimino, i cugini Salvo etc.), ma che il sistema politico di Andreotti aveva tenuto in piedi la Cupola fino all’inizio della seconda guerra di mafia, ovvero fino al 1980. Anche sul pentitismo Fava si era rivelato profetico, in quanto ne aveva colto le potenzialità in sede investigativa, ma al contempo aveva messo in guardia dalla contraddizione morale insita in uno Stato impotente che ha bisogno dell’aiuto di alcuni delinquenti per stanarne altri. I legami fra mondo della finanza e Cosa Nostra, che Fava aveva continuamente rimarcato con cifre che all’epoca erano apparse iperboliche, apparvero dopo la sua morte addirittura più profondi di quanto Fava stesso non avesse intuito: il sistema delle imprese “lavatrici” che ripuliscono il denaro sporco delle cosche e lo reinvestono in attività lecite ne è un lampante esempio. Nel biennio 92-94 in Italia le stragi di mafia e l’esito delle indagini legate a Tangentopoli dimostrarono quanto la corruzione fosse endemica nel sistema politico italiano; nello stesso biennio la trattativa fra importanti personaggi delle istituzioni e i boss della cupola corleonese, così come la capacità degli uni e degli altri di tenerla sotto silenzio per vent’anni, dimostrano quanta contiguità intercorresse fra le cosche e certi ambienti della politica».

Il 23 maggio del ’92 si trovava a Palermo. Che ricordi ha di quel giorno?

«Avevo 18 anni. Un sacco di sogni in testa, una corolla di amici, la fidanzata e un amore viscerale per la mia città, Palermo. Sentivo che la mia gente si stava risvegliando, era primavera e tutto sembrava possibile. Quando ho saputo che duecento metri di autostrada non c’erano più ero con degli amici e coi bambini del quartiere Capo, con cui facevo volontariato. Era sabato pomeriggio e ci guardavamo muti, senza il coraggio di parlare. Sapevamo che l’attentato non aveva solo la funzione di eliminare un nemico giurato di Cosa nostra, ma anche quello di fare scrusciu, di umiliare e mortificare tutti i siciliani onesti. La teatralità del gesto, il fatto di non averlo ucciso a Roma ma in Sicilia, tutto era simbolico in quel massacro. E i siciliani risposero, noi abbiamo risposto. Abbiamo anche vinto in un certo senso quella battaglia che Falcone aveva condotto con la schiena dritta. Ma la mafia è un camaleonte ed ha molti modi di trasformare la sua identità e di mimetizzarsi, rendendosi invisibile».

Tags:corruzione, Fabio Giallombardo, giovanni falcone, MAFIA, paolo borsellino, pippo fava, Stato e mafia
Carmelinda Comandatore

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