Francese, dall’oblio alla riscoperta: com’è cambiato il giornalismo

Un clan mafioso e sanguinario da un lato, un giornalista acuto e scrupoloso dall’altro. Negli anni ’70 a Palermo i corleonesi, capeggiati da Toto Riina, avevano sete di potere e spazzavano via tutto ciò che potesse ostacolare la loro ascesa. Così, trentanove anni fa freddavano sotto casa Mario Francese, cronista e padre di tre figli, che aveva capito prima degli altri, che la mafia stà dove stanno i piccioli.

In occasione dell’anniversario della sua uccisione, abbiamo voluto ragionare, insieme ad Andrea Tuttoilmondo, presidente regionale dell’UNCI, su cosa voglia dire oggi fare e affrontare le difficoltà del cronista oggi.

Presidente, cosa vuol dire oggi ricordare Mario Francese?

«Ricordare Mario Francese, così come ricordare Pippo Fava, Beppe Alfano e tutti gli altri cronisti che hanno pagato con la vita il proprio impegno e il proprio amore per questo mestiere, soprattutto in una terra come la Sicilia, significa riconoscere a queste straordinarie storie umane e professionali quel ruolo d’ispirazione che dovrebbe guidare chiunque, oggi come ieri e come domani, si accinga a svolgere con serietà e coscienza il lavoro del cronista».

Per molto tempo però la città di Palermo ha dimenticato il suo cronista di giudiziaria: la commemorazione che si tiene da qualche anno ha luogo grazie ad un’iniziativa dell’Unci, così come per un altro giornalista vittima della mafia, Mauro De Mauro.

«Spesso la nostra terra si è rivelata ‘distratta’ nei confronti di alcuni suoi martiri. Questo è avvenuto con Mario Francese, del quale per i 20 anni successivi all’omicidio, non si è praticamente parlato. Nella riscoperta del suo nome si è rivelato fondamentale il grandissimo contributo apportato dai suoi figli: Giulio Francese, attuale presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, e soprattutto di suo fratello Giuseppe.

La loro caparbietà, e il lavoro d’inchiesta svolto sugli stessi articoli scritti dal padre, ha consentito di riaprire le indagini sull’omicidio, consegnando da un lato alla giustizia i nomi dei responsabili, e dall’altro alla collettività una storia che altrimenti rischiava di cadere imperdonabilmente nell’oblio.

Ed è proprio perché non si dimentichino quei nomi che hanno fatto la storia della nostra professione che l’Unione Cronisti s’impegna quotidianamente con iniziative volte a mantenere sempre viva la memoria. Così ad esempio, nel 2006, è stata istallata la lapide sul luogo in cui Francese fu ucciso, e nel 2014 un’altra è stata posta sul marciapiede in cui sparì Mauro De Mauro la sera del 16 settembre 1970. Luoghi in cui ogni anno celebriamo il loro ricordo.

Affianco a queste iniziative, dal 2005 gestiamo insieme all’Associazione Nazionale Magistrati il “Giardino della memoria” che raccoglie decine di targhe dedicate alle vittime di mafia, ed è divenuto vero e proprio luogo di pellegrinaggio non solo per rappresentanti istituzionali, ma anche per tante scuole e gente comune».

Ci sono contesti, la questione degli sbarchi dei migranti a Catania, ne è un esempio, che ci dicono che la libertà di stampa in Italia non gode di ottima salute.

«A mio avviso il dibattito sulla libertà di stampa in Italia è un argomento tanto discusso quanto dai contorni sfumati. Perché se è innegabile

Andrea-Tuttoilmondo
Andrea Tuttoilmondo

una limitazione, a volte non giustificata, del lavoro dei cronisti, è altrettanto preoccupante l’intorbidimento della processo di comunicazione, che contribuisce a limitare sensibilmente, ed anche inconsapevolmente a volte, la stessa libertà.

Oggi più di ieri, infatti, tanto i giornalisti quanto i lettori sono chiamati a tenere gli occhi ben aperti sui fatti che raccontano, e soprattutto sui mezzi attraverso cui li riportano. In un mondo che va così veloce, complice la continua evoluzione tecnologica, non possiamo correre il rischio di perdere di vista ciò che rappresenta da sempre il fulcro del nostro lavoro: il valore della notizia.

Relativamente a Catania, dove nei prossimi giorni insieme all’OdG chiederemo ufficialmente un incontro con il Prefetto per risolvere il problema dell’accesso dei cronisti al porto durante le fasi di sbarco dei migranti, vorrei ricordare che spesso in passato lo stesso lavoro dei giornalisti ha offerto un utile contributo alle indagini della magistratura sull’identificazione ad esempio di scafisti, ricostruendo le storie dei disperati approdati in Italia. Sarebbe opportuno che chi è deputato a prendere determinate decisioni, tenga in considerazione anche questo aspetto del nostro lavoro».

A distanza di quasi 40 anni dall’omicidio di Mario Francese è cambiato il modo di raccontare la mafia, ma sono cambiati anche i problemi legati alla professione giornalistica.

«Il mondo cambia con ritmi assai frenetici nell’arco di 2 o 3 anni, figuriamoci rispetto a 39 anni fa. La mafia oggi si racconta più attraverso un lavoro di interpretazione delle carte giudiziarie piuttosto che attraverso inchieste sul campo, che pur esistono, ma in minor misura rispetto al passato. Ciò che mi preoccupa, e che per certi ritengo sia una costante di questi ultimi 40 anni, è l’esposizione, l’isolamento dei cronisti. Un isolamento che se un tempo era legato alla pericolosità di certi argomenti affrontati, oggi è direttamente connesso al contesto di precarietà in cui il giornalista è costretto ad operare, e ad una sorta di “nebulizzazione” della categoria. E’ questo il vero spettro da combattere oggi. Occorre riappropriarci di uno spirito di squadra che i tempi difficili vorrebbero cancellare definitivamente».

Recentemente il vescovo di Trapani ha messo in guardia i giornalisti dallo spettro del narcisismo. Qual è secondo lei la linea di confine da non oltrepassare per non cadere in un eccessivo protagonismo?

«Il vescovo di Trapani ha toccato un argomento assai delicato, che possiamo tranquillamente applicare più o meno a tutte le categorie sociali, senza per questo riservare alcuna esclusività a quella giornalistica. Tanti validi cronisti, e sono la maggiorate, svolgono il proprio dovere d’informare rimanendo sempre un passo indietro rispetto ai fatti stessi che raccontano.

E questo dovrebbe essere un ‘comandamento’ per chi svolge la professione. Certo non possiamo tralasciare il fatto che quello del giornalista sia comunque un ruolo socialmente riconosciuto, e come tale sia maggiormente esposto all’attenzione mediatica, rispetto a quanto non accadeva in passato. Ed è qui a mio avviso, che il cronista che operi secondo coscienza deve operare una scelta, nella consapevolezza che oltrepassando un determinato limite di visibilità, e divenendo egli stesso notizia, a quel punto cessa automaticamente di essere un cronista, divenendo altro».