Web tax: la base teorica dell’imposizione fiscale postula l’applicazione delle imposte sul reddito prodotto, nella località in cui è stato prodotto. La new economy, però, ha per sua natura una presenza fisica ridottissima e un’attività spesso immateriale.
Se io tasso il reddito prodotto nel mio territorio, le grandi imprese di Internet possono a ragione sostenere che il proprio prodotto sia sostanzialmente fabbricato nei laboratori dove si fa ricerca. Mentre molto inferiore, rispetto ad un’azienda che vende beni pesanti, è il valore della logistica se non ho bisogno di navi e magazzini (a ciò fa parziale eccezione Apple e, da poco, Amazon).
Per capire il peso della web tax basta vedere i numeri dei bilanci ufficiali: le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook) sono anche le cinque più grandi imprese del mondo per valore. Realizzano il 60% di vendite e profitti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Exxon, Johnson & Johnson e General Electric, per citare colossi americani che non sono però digitali, fanno metà del fatturato all’estero e all’estero pagano la metà delle tasse.
Secondo una recente stima del Parlamento europeo, i 28 hanno perso gettito fiscale per 5,4 miliardi di euro nel 2013-2015 per mancati versamenti da parte di Google e Facebook. Oggi l’aliquota media europea in un settore tradizionale è del 20,9%, mentre nel settore digitale è dell’8,5%.
Durante l’ultima riunione Ecofin tenuta a Tallinn, i Ventotto hanno chiesto alla Commissione europea di studiare nuove forme di tassazione dell’industria digitale. Le principali proposte sul tavolo, che sono tre: una tassa sul fatturato che le imprese digitali registrano in un dato paese; una ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali; una imposta da applicare alle attività digitali (servizi offerti o pubblicità raccolta). Seguendo l’esperienza dell’India, nella dichiarazione si suggerisce anche di introdurre un’”equalization levy”, cioè un’imposta compensativa sui ricavi delle imprese che non hanno una presenza economica significativa (digitale) nei vari stati Ue.
Importante è il fatto che le imprese digitali presentino varie forme di ricavi, ad esempio, ricavi da pubblicità online, sottoscrizione di piattaforme web con un fee, servizi premium, cloud computing, raccolta e utilizzo di big data e molto altro ancora. Gli utenti stessi sono una fonte importante di valore economico e di ricavo (big data). Il valore dei dati si trova nella loro “quantità e qualità”. Questi big data possono essere raccolti, aggregati, analizzati, profilati, trasmessi e rivenduti e sono la nuova vera ricchezza dell’economia globale.
Dubbi applicativi riguardano pertanto le modalità per definire imprese digitali e attività digitali, oppure quale definizione dare al termine fatturato.
L’Ecofin nei documenti parla di soglie quantitative. Quindi il problema non riguarderebbe solamente Google, Amazon e Facebook, ma potrebbero rientrare in questa definizione anche colossi come Zara e H&M, ad esempio, poiché effettuano vendite in e-commerce pur non essendo industrie digitali.
I delicatissimi temi fiscali in Europa richiederebbero l’unanimità dei Paesi. Dall’Ecofin di Tallinn, però, arriva la possibilità di procedere singolarmente con la revisione del sistema di tassazione nei singoli Paesi membri, senza bisogno dell’unanimità.
La verità finale è che la sfida è doppia: trovare un consenso in Europa, ma soprattutto evitare una deleteria spaccatura internazionale.
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