“Un posto sicuro”, Francesco Ghiaccio: “Raccontare è un dovere”
SIRACUSA – Verrà presentato questa sera, in occasione dell’Ortigia Film Festival, il lungometraggio “Un posto al sicuro”, un film forte e toccante allo stesso tempo, in cui attraverso le storie dei protagonisti viene raccontato il disastro ambientale provocato dalla fabbrica Eternit, che ha causato la morte di migliaia di persone nella zona di Casale Monferrato.
Marco D’Amore è Luca, un attore mancato, che sta buttando via la sua vita e che si trova costretto a riallacciare i rapporti con il padre Edoardo, interpretato da Giorgio Colangeli, operaio della fabbrica della morte, che si ammala come moltissimi suoi colleghi di mesotelioma, il tumore provocato dalle polveri dell’amianto. Una storia di vite spezzate dal dramma Eternit, ma anche d’amore, come quella tra Luca e Raffaella, interpretata dalla bellissima ed eterea Matilde Gioli.
Ne abbiamo parlato con il regista Francesco Ghiaccio, che arriva per la prima volta in Sicilia e incontrerà il pubblico dopo la proiezione del film, che si terrà alle 20:45, nell’Arena Minerva in Ortigia.
Francesco, ricorda il momento in cui ha appreso del disastro causato dalla fabbrica Eternit?
«Di questa storia ne avevo sentito parlare, ma non avevo idea delle dimensioni del disastro, non immaginavo minimamente che avesse causato tutte quelle vittime e quel disastro ambientale. La fabbrica è stata abbattuta nel 2006 e per tutti quelli della mia generazione quel lungo stabilimento che era ridosso del centro cittadino era solo una vecchia fabbrica abbandonata. Quasi non pensavamo più fosse la fabbrica Eternit. Poi nel 2009 quando è cominciato il processo, con il rinvio a giudizio, i ricordi sono tornati a galla. Possiamo dire che l’evento scatenante che mi ha messo di fronte alla realtà delle cose è stato proprio il processo».
Quando ha preso coscienza della gravità della situazione, la reazione che ha avuto è stata simile a quella forte che ha avuto Luca?
«Si, diciamo simile, perché all’improvviso ti rendi conto di far parte di qualcosa di molto difficile, di vivere una situazione di pericolo. Tutti quelli che appartengono alla mia generazione hanno respirato inconsapevolmente e per
anni un’aria inquinata: i vetri della fabbrica, abbandonata a se stessa a pochi chilometri dal centro cittadino, erano rotti e il vento portava in giro le polveri dell’amianto».
Il racconto di Nicola Pondrano, l’operaio che vi ha aiutato nella stesura della sceneggiatura, è disarmante: tornava a casa e la figlia, molto piccola, giocava con lui togliendoli dalla testa dei filamenti che si portava dietro, ma che in realtà erano amianto.
«Si, era un operaio entrato in fabbrica giovanissimo, negli anni ’70, a cui il primo giorno di lavoro chiesero: “Sei venuto a morire anche tu?”. Lui ha riportato questa testimonianza forte al processo, dove è stato chiamato come testimone. Il film è tutto ispirato da persone che ci hanno raccontato la loro vita. I tre protagonisti: Edoardo, Luca e Raffaella, sono chiaramente di finzione, ma fanno riferimento a persone che sono esistite o esistono realmente a Casale. Anche la battuta centrale di Luca, quando dice “io di questo disastro non ne sapevo niente” è una confessione che io e Marco D’Amore abbiamo fatto, perché come dicevo prima non ne sapevamo davvero nulla».
Tra tutte le storie che avete raccolto ce n’è una che vi ha lasciato il segno?
«Si, quella di Romana Blasotti Pavesi, una signora di quasi novant’anni, che ha perso cinque familiari. La sua testimonianza, riportata anche in tribunale, è presente nel film e mi ha lasciato davvero senza parole, perché dice: “non ho nessun rancore nei confronti delle persone che hanno causato tutto questo, vorrei solo che assistessero dal primo all’ultimo giorno di malattia un malato di mesotelioma come ho fatto io”. È una dichiarazione priva di rancore, che da la misura di come abbia reagito Casale Monferrato a questa tragedia. È stata una battaglia in cui tutti sono stati davvero uniti, senza rabbia, per ottenere giustizia in una maniera sana, senza proteste fini a se stesse».
Quando ha deciso di realizzare il film?
«Da quando è cominciato il processo, tutto mi portava continuamente a pensare alle cose che di giorno in giorno si scoprivano e la ricerca è iniziata senza la consapevolezza del risultato finale. In seguito tutti i racconti ascoltati mi hanno trasmesso la necessità di andare fino in fondo e di raccontare della tragedia attraverso il film. Inizialmente con Marco avevamo deciso di autoprodurlo, chiedendo aiuto alla città, che ci ha risposto unita. Poi Indiana Production è venuta, per fortuna, in nostro aiuto e ci ha permesso di trasformare quell’avventura in un film vero».
Con Marco D’Amore collaborate da diverso tempo. Questo progetto, che è il primo che scrivete insieme, possiamo dire che vi ha unito maggiormente?
«Senza dubbio. È la prima volta che realizziamo insieme una sceneggiatura e riusciamo ad andare, insieme, fino in fondo in qualcosa in cui crediamo. Ci provavamo da diverso tempo, ma non c’era mai stata occasione per motivi diversi, dalla mancanza di coproduttori alla natura dei progetti che si presentavano. Collaboriamo da circa 15 anni, ci siamo conosciuti alla Scuola “Paolo Grassi” di Milano: io studiavo drammaturgia, lui recitazione e ci siamo trovati subito in sintonia. Abbiamo fondato una compagnia, che ha prodotto Un posto sicuro insieme a Indiana production, e da allora non ci siamo più fermati: format, spettacoli teatrali, cortometraggi. Io ho sempre scritto e diretto le storie di cui lui è stato protagonista, anche con un occhio alla produzione: quello che muove Marco è la voglia di portare lavoro a quanta più gente possibile e con questo film abbiamo centrato questo obiettivo: da quando è uscito in Italia, lo scorso dicembre, abbiamo fatto più di 100 incontri nelle scuole».
Con questo lungometraggio è la prima volta in cui lei si mette alla prova come regista. Una scelta coraggiosa debuttare raccontando di una vicenda così delicata.
«Questo film l’ho fatto con molta incoscienza. Mi sono fatto guidare dagli avvenimenti, dalle emozioni, dalla paura che ho vissuto in questi anni ma anche dalla voglia di ricominciare e non sentirsi più incastrati dentro al disastro. Io e Marco non siamo sicuramente degli eroi, ma abbiamo fatto quello che andava fatto: raccontare. Questo credo sia il compito che oggi spetti ad ogni cittadino e che cerchiamo di trasmettere ai ragazzi nelle scuole che oggi hanno i mezzi per condividere le informazioni importanti».
Che ricordi ha di Casale Monferrato e delle zona in cui è cresciuto prima dell’inizio del processo Eternit?
«Prima di avere coscienza del disastro ambientale, vivere a Casale voleva dire vivere in un paradiso. Parliamo di una zona collinare immersa nel verde, in cui per me tutto aveva a che fare con il mito, la meraviglia, la poesia. Per fortuna oggi è una delle città più bonificate d’Europa».
C’è un posto in cui Francesco Ghiaccio si sente al sicuro?
«Ogni volta che la mia vita funziona mi sento al sicuro. Sento che funziona quando le persone che mi stanno vicino mi amano e io riesco a ricambiare quell’amore».