Ad una temperatura di oltre 750 °C, la cera che si trova all’interno dello spazio del “vacuum”, macchina scultorea contemporanea, si liquefa per lasciare il posto all’intercapedine che sarà colmata dal metallo scelto e fuso. Due ciondoli realizzati con questa tecnica, uno a forma di mano e uno a forma di teschio, e degli occhi buoni e attenti che si affacciano dalla mascherina, sono solo alcuni dettagli che noti quando Francesco Scherma, artigiano palermitano d’eccezione, accoglie il visitatore nel suo laboratorio a Piazza Giovanni Meli e abilmente spiega, anche a chi è profano in materia, il procedimento della “fusione a cera persa”.
Non è un’impresa facile parlare di Francesco, del modo in cui cerca di combattere la scomparsa di arti antiche e di quanto meravigliosa sia la sua attività che, per cominciare, non è una sola. Puparo, scultore, disegnatore, ceramista, orefice: esattamente come una mano accogliente e un teschio minaccioso possono crearti sentimenti contrastanti, il laboratorio è un miscuglio indistinto di sacro e profano, di cose palermitanissime poste accanto a ceramiche orientali, di gioielli da indossare e oggetti frutto di un impellente bisogno di esprimersi.
Il laboratorio di Francesco nasce accanto a Ferramenta, locale che costituisce l’unico barlume di modernità a piazza Giovanni Meli, uno di quei cortili a Palermo in cui sembra che il tempo non voglia passare. Protagonisti di tutto sono i pupi: al centro del laboratorio un teatrino illuminato domina la scena con Carlo Magno impettito fissato dagli occhi vispi dell’angelo che gli plana accanto con un’armatura argento vivo e drappeggi azzurri. In alto, al centro di uno stemma araldico campeggia il nome “Francesco Scherma” di cui lo stesso Francesco sorride imbarazzato, temendo di avere esagerato.
Fatto che esprime modestia, dal momento che a Palermo solo lui e pochi altri – Salvatore Bumbello, Enzo Mancuso, Cuticchio e la famiglia Argento – possono definirsi “pupari” alla vecchia e autentica maniera. Un bene artistico come quello dell’Opera dei Pupi, nato alla fine dell’Ottocento e patrimonio culturale e immateriale dell’Unesco dal 2008, rischia infatti di scomparire, col rincaro della batosta che il mondo dell’arte ha dovuto subire quest’anno.
Francesco spiega il processo di costruzione come per soddisfare la curiosità che lui stesso aveva da bambino, fa muovere lo scheletro in legno del “pupo” e parla del lavoro sartoriale, di meccanica, smerigliatura e abbellimento che vengono successivamente. Diversi da quelli catanesi, più umanizzati e con capacità motorie più definite – come quello di estrarre la spada dal fodero – i pupi sembrano avere vita propria, facendo dimenticare la presenza del burattinaio che in quel momento ne decide le sorti.
“Conosciuta in tutto il mondo grazie ai viaggi dei pupari, in particolare di Cuticchio, l’arte dei Pupi è – spiega Francesco – la testimonianza che il teatro di figura antropologico fa parte di tutte le culture, un mezzo didattico-educativo per diffondere le storie di Carlo Magno e dei suoi paladini. Perdere tutto questo sarebbe veramente un peccato”.
Francesco nasce in una famiglia la cui caratteristica è una naturale propensione alla manualità. Il nonno costruisce carretti siciliani, l’attività principale della famiglia è un negozio di mobili. Per un periodo il padre e lo zio che lavorano al Museo Salinas e a Palazzo Abatellis di Palermo lo portano in giro per i musei. Ma soddisfare la curiosità di Francesco non basta. Comincia a rubacchiare gli strumenti dalla cassetta degli attrezzi del nonno e del papà, e comincia a chiedere – gli racconterà poi la mamma – con quale materiale sono fatte le cose che osserva. Eredita la vena artistica della famiglia e da quel momento tutti i suoi studi sono incentrati su questo. Ama gli istituti d’arte e l’Accademia di Palermo, ma si dice anche contro il sistema accademico, una collazione di crediti solo nozionistica per poter tramandare un saper-fare. Afferma inoltre che la mancanza di comunicazione tra le famiglie dei pupari, gelose di alcuni segreti del mestiere, sarà probabilmente una delle cause della scomparsa, se non di questa arte nell’insieme, della sua autenticità.
“Penso che il fuoco sia il mio elemento, è come se fosse il mio maestro. È lui che ti da la conferma del fatto che un oggetto sia ben realizzato, perché lo stressa, ne verifica la resistenza e la tempra”.
Francesco Scherma racconta di collaborazioni con le fonderie a Mazzara del Vallo e a Carini che fanno nascere la sua storia d’amore col fuoco, nell’oreficeria e nella ceramica.
Tuttavia alla domanda su qual è l’attività che preferisca in assoluto Francesco non risponde, rimandando invece ad un problema molto attuale, ovvero il ritorno all’artigianato come contraltare di un mondo progressivamente virtuale: “Non riesco ad identificarla perché mi oriento in base a quello che sento, alle esigenze che ho. Il metallo mi ricompensa in una determinata maniera, quando ho il piacere di ritornare alle origini lavoro il legno o l’argilla. La scultura o il torno sono attività meditative, cose alle quali oggi non siamo abituati. Mi sento un po’ un alieno a volte dicendo tutto ciò, ma credo ci sia una velata esigenza da parte della gente di voler mettere mano alla materia”.
In crisi da astinenza da viaggio come tutti quelli che in tempi migliori non perdevano l’occasione per fare una valigia e dileguarsi, Francesco afferma comunque che fuori da Palermo si vedrebbe comunque snaturalizzato. Ha viaggiato tantissimo ma Palermo è la sua città, le altre sono state inesauribili fonti ispirative. Sugli scaffali, gli ex-voti e i gioielli che ripropongono la struttura di San Giovanni degli eremiti sono intervallate da vasi realizzati con la tecnica della ceramica giapponese “raku”: “Lavoro a questa ceramica dalla mia tesi del 2009. Alla triennale ho fatto una tesi in Tecniche della scultura specializzandomi su questa tecnica.
Il termine giapponese allude al significato di “piacere o godere del fare”. È un modo di godere del processo e della tecnica, anche perché la materia di partenza è diversa e refrattaria, viene sottoposta ad una cottura di 1010 gradi e si estrae incandescente dal forno. La cosa bella è che gli smalti e le cristalline che si usano anche nella comune maiolica ritornano alle origini dalle quali sono state ricavate perché sono paste vetrose con ossidi metallici”.
Come avviene per tanti altri artisti, ogni oggetto realizzato ha alle spalle qualcosa di importante, storie, aneddoti, sentimenti. C’è una scultura che prende in mano con una particolare cura, realizzata qualche anno fa e che lo scorso 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, dedica pubblicamente alla figura femminile e ad un suo amore passato, anche lei scultrice e purtroppo scomparsa cinque anni fa.
Dietro questa scultura, un sogno. Un malcelato ricordo e la sua necessità di manifestarsi apertamente. Tania, questo il nome della ragazza, è indice della passione di Francesco per la figura femminile nell’arte, ma anche della spiritualità avvertita prima di cominciare qualsiasi opera. “Quando fai qualcosa è come se fossi indotto in una strada. Ciò che viene fuori è come un figlio, uno spin-off del tuo spirito e della tua persona”, dice.
Chiacchierare con Francesco fa trapelare anche le tante contraddizioni che riguardano Palermo e il suo rapporto con l’arte. Secondo lui Manifesta e l’anno di Palermo capitale culturale hanno fatto emergere queste contraddizioni, mostrando la nostra città ricca ma nello stesso tempo incapace di dialogare col resto del mondo, poco adatta al confronto internazionale. “Se la politica affrontasse il concetto del bello, ispirandosi al bello, tutto sarebbe più facile, senza andare dietro ad aspetti burocratici e complicazioni. Tutto ciò ha un riverbero su ogni tipo di arte, purtroppo, poiché non viene valorizzata abbastanza neanche all’interno della città. Non ci sono consorzi, non ci sono associazioni. Questi sono i motivi per cui rischia di scomparire del tutto”.
I progetti futuri sono tanti, anche e soprattutto per rimediare alla probabile degenerazione di alcuni mestieri. Francesco Scherma vorrebbe cominciare con piccoli workshop, non solo per gli studenti ma per tutti quelli che nella frenesia che caratterizza il mondo di oggi cerchino un’attività che rapisca, per la quale, ridestandoti, ti accorgi che è già buio.
In Toscana, con un suo caro amico, ha vissuto la bellissima esperienza di fare un piccolo corso di cesello e con lo stesso format vorrebbe cominciare a seminare l’interesse per determinate attività, nella speranza che dall’interesse nasca una vera e propria scoperta. Francesco conclude con quella che, sempre sorridendo, definisce una sua “massima”: “prima pazientemente e poi sapientemente”. Significa affrontare le sfide prima con umiltà e con la consapevolezza di poter sbagliare, per poi raggiungere l’obiettivo e far esplodere qualcosa, avendo maturato quello che si sta realizzando. “La cosa bella del mio mestiere – conclude – è che pur avendo delle conoscenze consolidate, ad ogni opera si è punto e a capo, la bravura dell’artigiano sta nel saper prendere ciò che sa fare e raggiungere un obiettivo diverso. Vorrei che tutti capissero l’importanza dell’arte, ma anche di questo.”
Con il Superbonus 100% un semplicissimo requisito ti permette di ristrutturare casa senza dover tirare…
Vicino alla cancellazione dal palinsesto Ballando con le Stelle. Milly Carlucci è costretta a mettere…
Un test sulla bella Sicilia, ci sono risposte che nemmeno i veri siculi conoscono, la…
Attento alle banconote false, se paghi qui te le prendi sicuramente. Situazione pericolosa I temi…
Le offerte di Natale all'Ikea sono fuori di testa: non approfittarne è da pazzi. Durante…
Al mattino instabilità sui settori settentrionali dell’Isola con piogge sparse e neve sui rilievi oltre…