Un incontro sofferto
È uscito nelle sale lo scorso 28 ottobre l’ultimo lungometraggio di Cristina Comencini, Quando la notte, tratto da un libro della stessa regista trasformato in sceneggiatura con l’aiuto di Doriana Leondeff.
di Massimo Arciresi
È uscito nelle sale lo scorso 28 ottobre l’ultimo lungometraggio di Cristina Comencini (foto di Marina Di Giorgi), Quando la notte, tratto da un libro della stessa regista trasformato in sceneggiatura con l’aiuto di Doriana Leondeff. È la storia di una giovane donna, Marina, interpretata da Claudia Pandolfi, che per un lungo periodo si trasferisce in un villaggio di montagna, sola con il figlioletto di quasi due anni Marco. Si stabilisce in un appartamento di proprietà dell’ombroso Manfred (Filippo Timi), una guida quasi sempre fuori per lavoro, che abita nell’interno sottostante. Una brutta sera, l’irrequietezza del bambino causa uno sconquasso, anche esistenziale, per i due sconosciuti, già segnati dalle rispettive vite.
Il film, dopo aver partecipato in concorso a Venezia e avere suscitato alcune polemiche (spesso pretestuose), è scampato alla scure censoria, che, per i temi affrontati, voleva imporre un divieto ai minori di 14 anni. L’autrice e i protagonisti hanno quindi accompagnato la loro fatica (definizione adeguata, a causa delle complicate locations montane e dell’intensità insufflata nei caratteri) in giro per l’Italia; la libreria la Feltrinelli di Palermo, dove hanno avuto luogo le interviste, era la loro ultima tappa, proprio nel giorno della distribuzione nazionale della pellicola. Poiché, in mezzo alla nutrita folla presente all’incontro, il simpatico Timi – che durante il dibattito aperto al pubblico non ha mancato di sottolineare la delicatezza psicologica del suo personaggio e ha invitato le potenziali spettatrici, per attitudine più sensibili al contenuto della storia, a portare al cinema gli uomini – ci è sfuggito, abbiamo rivolto qualche domanda all’attrice principale e alla cineasta.
Claudia Pandolfi, il film stava per subire un divieto di visione, poi revocato. Ci spieghi perché?
«Perché volevano vietarlo o perché alla fine non l’hanno fatto?»
Entrambe le cose.
«Il film è stato in un primo tempo vietato ai minori di 14 anni perché, ti dico la motivazione che ci hanno dato, “il vuoto di una madre normale può provocare inquietudine in un adolescente”. Trovo che sia una follia! Perché non si può proteggere nessuno dalla verità, soprattutto censurandola o negandola, e perché è un tentativo di dare seguito a un retaggio culturale che ci è stato imposto e che a lungo abbiamo assecondato, per il quale il rapporto uomo-donna deve soddisfare determinati stereotipi. Questo lo trovo ancor più sconvolgente. Basta accendere la tv, vedere come si vestono le persone: è pieno di stimoli erotici, perversi, dannosi, pericolosi, volgari; anche le immagini del corpo sfigurato di Gheddafi… Mi sembra quantomeno curioso che si voglia censurare un film come questo, mentre poi, per il resto, ci troviamo in una specie di Babilonia.»
Quindi, opportunamente, ci hanno ripensato…
«Noi naturalmente siamo insorti. Non è mica un problema di critiche: le critiche sono sempre bene accette, così come il dibattito sui contenuti. È che non aveva senso, o comunque aveva un senso molto limitato; infatti, dopo la commissione si è riunita di nuovo e il divieto è stato tolto.»
La tua è un’interpretazione sofferta. Più per i luoghi in cui avete girato o più per il ruolo?
«Per tutt’e due! Anzi, per il ruolo inserito in quei luoghi. Veramente, è stata un’alchimia molto particolare. Ho vissuto il personaggio in maniera molto intima. È un privilegio: non è che in Italia fiocchino così tanti bei ruoli per le donne, spesso le storie ruotano attorno agli uomini. Un po’ come nella società, no? Quindi, è stato bellissimo, travolgente, profondo, mi sono emozionata tanto. L’ho vissuto proprio sulla mia pelle… Insomma, potrei parlartene per un sacco di tempo!»
Signora Comencini, quando una regista scrive un libro, sta già pensando a un film?
«Mai! Io ho scritto nove libri e ne ho tratto solo due film. All’inizio ero molto purista, pensavo che fosse un male fare un film da un mio libro, che lo avrei contaminato. La vedevo in un modo “schizofrenico”. Poi, a un certo punto, ho cominciato ad acquisire il gusto di mischiare le drammaturgie, ho fatto anche del teatro… Però, quando scrivo un libro, lo considero solo come tale; in seguito, se ritengo che il film possa aggiungere qualcosa di nuovo al libro e che possa diventare qualcosa a sé, allora ci sto!»
Come è stato adattare il romanzo in forma di copione?
«Lo scopo era rendere oggettivo ciò che nel libro erano due monologhi. Immergere tutto nel silenzio; sapevo che ci sarebbe stata la montagna, il paese, le distanze… il bambino in carne e ossa (che nel film è “interpretato” da tre gemelli, n.d.r.)! Dunque, un lavoro in levare. Tanti dialoghi li ho tolti proprio mentre giravamo, perché tutto diventava più chiaro. Il cinema ha questo di bello, essendo sintetico, può darti tante cose insieme, in una sola immagine.»
A proposito della montagna (lo sfondo su cui è ambientata la storia), come l’ha scelta?
«In realtà, il romanzo si svolge in Alto Adige. Abbiamo ricollocato la vicenda in Piemonte (anche in Val d’Aosta, trattandosi del Monte Rosa, ma il Piemonte poi è entrato in co-produzione), perché lì la montagna è assai più “dura”. Io volevo una montagna dura, non troppo costruita, senza troppi gerani; e lassù è così: molto forte e difficile.»