Stralci di memorie…

Una Fiat 127 verde, a benzina. E duecento chilometri di autostrada tinta, che in inverno magicamente spesso si allungava, vuoi per la neve che si incontrava a Tremonzelli o per la fitta nebbia in prossimita’ di Enna.

di Filippo La Torre

Palermo, 7 Gen. – Una Fiat 127 verde, a benzina. E duecento chilometri di autostrada tinta, che in inverno magicamente spesso si allungava, vuoi per la neve che si incontrava a Tremonzelli o per la fitta nebbia in prossimità di Enna.

L’anno era il 1978. Mio compare Pietro e io eravamo gli “stranieri” del glorioso Amatori Catania di rugby del compianto Benito Paolone. Due volte a settimana, senza mai fare caso alle condizioni atmosferiche e non potevamo nemmeno chiedere lumi a internet, ché quelli erano altri tempi.

Se a Palermo c’era il sole a Catania diluviava e viceversa, ma ci catafottevamo, un metro e novanta cadauno, dentro quel macinino da caffè con le ruote e si faceva strada. L’andata era sempre più lieve, Pietro e io ci alternavamo alla guida, e non mancavano gli argomenti per fare trascorrere il tempo e i chilometri.

A Pietro piacevano le canzoni tipo “Parlami d’amore Mariù” e io preferivo i nostri dialoghi, anche se a volte deliranti, alla mielosità della sua musica. Appena arrivati alla fine dell’autostrada, una tabella indicava 192 chilometri, non avvertivamo più la stanchezza del viaggio e ci spogliavamo di tutte le incrostazioni che il nostro corpo assorbiva, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita.

Spesso da incoscienti, subito appena usciti dall’autostrada, facevamo una capatina da Privitera e ci ingolfavamo con un panzerotto alle cipolle denominato dolcemente cipollina: un rutto in faccia a un nostro compagno durante l’allenamento e gli avremmo sbiancato permanentemente i capelli!

Non ricordo di avere mai saltato un allenamento e l’entusiasmo di incontrare i miei amici catanesi, compagni di squadra, non scese mai di livello. Anche se giocavamo nella massima serie, spesso in allenamento non era presente tutta la squadra e quando si andava in trasferta, dovevamo fare a meno del nostro estremo titolare perché aveva paura di volare.

E il destino, che il più delle volte sa essere maligno, ha voluto che volasse in cielo prematuramente. Si viveva di orgoglio e morali soddisfazioni, che in italiano stretto sta “a pani e tumazzu”. Il nostro presidente, Santi Granata, si faceva carico di pagarci il rimborso della benzina, il puro costo della trasferta, e capitò più di una volta che svuotando le sue tasche, con il suo sguardo da birbone, esclamasse: Non ho una lira!

Il campo non era in erba, ma di vile terra battuta e non morbida, in erba lo diventerà in seguito, ed era diventato un incubo per le squadre ospiti. Squadre di alto blasone come la Metalcrom Treviso o la Sanson Rovigo o il Petrarca Padova sapevano che difficilmente sarebbero ripartiti da Catania con la vittoria in tasca, eppure il loro organico era ricco di campioni, internazionali e non.

Avevamo un pubblico eccezionale, che le domeniche riempiva gli spalti ed era il nostro unico e prezioso stimolo, non c’erano altri onori o prebende. Per noi non era importante l’apparire, non era nelle nostre preoccupazioni avere i calzettoni o i pantaloncini dello stesso colore. Però avevamo in comune qualcosa che sta nascosta dentro le pieghe dell’anima, forse anche nel nostro rugby, allora, c’era il senso di un riscatto che da sempre sprona chi vive dentro un triangolo chiamato Sicilia.

Il ritorno ci vedeva, dopo due ore di allenamento, spesso infreddoliti e doloranti, muti, a leggere i chilometri che ci lasciavamo alle nostre spalle e a quelli ancora da percorrere. Si arrivava a casa sempre oltre la mezzanotte, il più delle volte non cenavo, un bacio alla mia bambina, e poi subito a letto.