Startup, crollo degli investimenti. Tutta colpa della burocrazia?
Il 2017 è stato un anno nero per le startup italiane. Sono stati investiti 110 milioni di euro, 68 milioni in meno rispetto al 2016. Un dato sconfortante, che non andrebbe analizzato a sè. Parallelamente, infatti, il numero di startup iscritte al registro italiano delle imprese innovative continua a crescere. A dicembre 2017 se ne contavano circa 8.000.
Idee imprenditoriali in molti casi valide, che falliscono raramente, ma che allo stesso tempo non riescono a svilupparsi e ad attrarre investimenti. Ne parliamo con Paola Di Rosa, giurista d’impresa, che si occupa da anni di finanza per l’innovazione e sviluppo di business innovativi, compliance legale per le startup, ma anche mentor per le imprese innovative, attraverso AtFactory, polo di innovazione sociale, che ha sede a Palermo.
Nel 2017 si è verificato un crollo degli investimenti sulle startup. Molti affermano che era prevedibile. Si trova d’accordo?
«In effetti si. Quello degli investimenti privati o meglio della loro debolezza e scarsa partecipazione al capitale di rischio delle nuove imprese in Europa è uno dei problemi a cui la stessa UE ha cercato di dare soluzione prevedendo la possibilità per gli Stati membri di implementare strumenti finanziari, che però devono essere concepiti e attuati in modo da “promuovere una notevole partecipazione degli investitori privati e delle istituzioni finanziarie sulla base di un’adeguata condivisione dei rischi (art 36 Regolamento UE N. 1303/2013)».
Quali strategie sarebbe auspicabile attuare per attrarre investimenti dall’estero?
«Agli investitori, specie a quelli stranieri, interessano esclusivamente le startup che hanno un alto potenziale di crescita, che siano scalabili e
che abbiano una buona exit strategy. Per attrarli, quindi, servirebbe creare una fabbrica di startup che riesca a generarne un gran numero e che renda quindi più possibile e facile per gli investitori che fanno scouting trovare quella in linea con le loro esigenze. Un po’ seguendo il modello francese di Stazione F.
Per realizzarlo in Italia, bisognerebbe però lavorare sul business mindset dei nostri talenti, delle nostre imprese ancora poco “confident”, poco fiduciose nei loro servizi e nelle risposte del mercato, poco affini al concetto di “rischio d’impresa”, di fallimento come prova, e ancora poco disposti a rischiare capitali propri. A volte non è sempre e solo responsabilità delle istituzioni».
Nel frattempo gli italiani all’estero si organizzano e lanciano a Londra TechItalia, l’incubatore per startup, che abbia almeno un fondatore italiano. Non crede sia un ulteriore campanello d’allarme che ci dice che l’Italia ha perso la sfida dell’innovazione?
«L’Italia non ha ancora perso la sfida dell’innovazione, ma è ovviamente in forte ritardo e rischia di perderla se non prende a modello il sistema virtuoso della Lombardia dove si registra un aumento del fatturato e quindi di vitalità delle startup innovative e del tasso di innovazione tecnologica delle imprese. Dove sono presenti grandi player come Facebook, Microsoft, Google e dove – grazie alla sinergia tra imprese ed istituzioni – si è appena attivato il Fintech Distrisct nato proprio per attrarre capitali.
Per capire quale potrebbero essere le differenze tra la Lombardia e le altre regioni basterà guardare alle azioni, contributi ed altre facilitazioni messe in piedi dalle istituzioni pubbliche, compresa la Camera di Commercio, gli investimenti in innovazione e ricerca delle Imprese e fare il paragone con quanto è stato fatto da noi in Sicilia e nelle altre regioni. Occorre quindi uno sforzo collettivo e condiviso».
Il direttore dell’Agi, Riccardo Luna, ha recentemente dichiarato “non serve un altro premio, serve una rivolta”. E’ d’accordo?
«Non del tutto! I premi sono il riconoscimento dovuto per chi, nonostante tutte le difficoltà, lavora e crede in quello che sta facendo, in più può servire da modello, da ispirazione per chi vuol provarci. E’ ovvio però che non può essere la soluzione alle carenze del sistema, all’immobilismo delle istituzioni o delle imprese che non innovano. Per questo occorrono politiche economiche e strumenti finanziari che possano incentivare anche gli investitori privati.
Ricordiamoci che la startup è una sperimentazione, la ricerca di un processo-prodotto/servizio innovativo che può e deve scalare. Non sarebbe corretto da parte delle istituzioni che hanno come mission la crescita di un paese attraverso l’innovatività delle proprie aziende lasciare interamente il rischio di questa sperimentazione ai privati».
In Sicilia, con AtFactory, fa mentoring per diverse startup, mettendole in contatto con i circuiti imprenditoriali di Milano e Roma. Cosa manca ancora alla Sicilia per diventare un polo attrattivo al pari del Centro-Nord, ed evitare che realtà innovative nate in Sicilia come Greenrail, nella migliore delle ipotesi, scappino al Nord?
«In Sicilia abbiamo una grande opportunità data dai Fondi Strutturali 2014-2020 che – se usati bene ed in maniera strategica – consentono di dare contributi alla filiera dell’innovazione, dai laboratori dal basso quali sono le community attive sul territorio regionale, alle imprese che innovano e che avranno quindi bisogno di profili professionali sempre specializzati, agli stessi investitori privati (penso ai Business Angel o ad un Fondo pubblico-privato), sulla scorta di quanto indicato nel Regolamento UE e già attuato da altre regioni per sostenere le startup nella loro fase iniziale, (pre seed) quella della sperimentazione, per farle crescere ed approdare al mercato del VC, quando avranno maturato una contabilità dell’innovazione interessante per gli investitori (italiani ed esteri). L’invito alle istituzioni è quello di incontrare ed ascoltare le community attive sui territori – ma non censite dalla regione- per implementare insieme una strategia dell’innovazione».