Sebastiano Ardita: “Dopo 23 anni le indagini sui potenti isolano ancora i magistrati”
Sebastiano Ardita, Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Messina, da diversi anni in prima linea nella lotta alla mafia, è l’autore di “Catania bene”, un libro che racconta le diverse facce di una città, in cui, a partire dagli anni ’80, si va affermando un modello mafioso improntato alla trattativa, in contrapposizione a quello corleonese, sanguinario e stragista.
Quella che emerge dal racconto del magistrato catanese, è una città in cui lo Stato e il mondo malavitoso sembrano contrapporsi per poi mescolarsi in un sistema torbido, che punta a non destare troppa attenzione, ma che sa anche soffocare, all’occorrenza, le voci scomode che ne intralciano l’espansione.
Dott. Ardita, da diversi anni è impegnato nella lotta alla mafia, soprattutto nelle sue infiltrazioni nella Pubblica Amministrazione. Quando ha capito che la magistratura sarebbe stata la strada che voleva intraprendere e qual è stata la reazione dei suoi genitori?
«Sono catanese e provengo dalla borghesia cittadina. Conosco bene quel mondo che si fa scivolare tutto addosso, che fa del successo personale e della ricchezza lo scopo della propria esistenza, ed è avvezzo a scambiare ruoli di rilievo istituzionale con privilegi personali. Inutile dire che a me non stava bene e onestamente neanche ad altri che ho conosciuto quando sono entrato in magistratura. Dopo aver fatto il militare come sottotenente dei Carabinieri, mi sono reso conto che solo il pubblico ministero aveva strumenti reali per incidere su questi temi. Avevo i mezzi per studiare e il concorso per la magistratura era fuori dal controllo “clientelare”. Ma quanto fosse comunque difficile cambiare le cose lo avrei capito anni dopo. La mia famiglia ha accettato le mie scelte e non si è neppure posta il problema che potessi rischiare qualcosa; del resto, fino al 1991 cosa avrebbe potuto rischiare un giudice a Catania?».
Come spiega in “Catania bene”, oggi la mafia porta avanti affari utilizzando capitali che ha accumulato in maniera illecita e che reinveste lavorando sotto traccia. Rispetto al passato sono cambiate le “modalità”, ma sono cambiati anche i canali di approvvigionamento?
«È un modo d’agire che naturalmente va oltre Catania, anche se i catanesi per primi se ne sono fatti interpreti. Ritengo che il denaro accumulato ed investito imponga, più che suggerire, un salto di qualità alle organizzazioni mafiose. Alla generazione di chi non aveva niente da perdere ed era disposto a sparare per conquistare qualcosa, se ne è sostituita un’altra che ha accumulato ricchezza ed interessi e vuole mantenere questi privilegi. Mi sembra che questo basti per cambiare profilo. Naturalmente ci sono tanti altri che non hanno niente da perdere e continueranno ad agitarsi, ma dovranno interagire coi primi e dunque l’atteggiamento complessivo della mafia è destinato a cambiare. Anche le fonti di approvvigionamento cambiano e pure i reati. I traffici illeciti ( droga, rifiuti, appalti) – che sono reati in cui si investono capitali – vanno prendendo il posto dei reati di mera apprensione di ricchezza (rapine ed estorsioni), per definizione più rischiosi. Alla intimidazione si sostituisce la corruzione. Ma per noi catanesi è un film già visto…».
Se venissero confermate le ipotesi di reato, il caso Saguto sarebbe l’ultimo degli esempi che dimostrerebbe come sia diffusa un’antimafia di facciata. Avete la percezione che questi scandali abbiano avuto ripercussioni negative sulla magistratura, delegittimando la vostra attività, o ritiene che l’opinione pubblica, nel tempo, abbia sviluppato degli anticorpi verso certi personaggi?
«Naturalmente prescindo dal caso specifico che troverà nelle giuste sedi l’accertamento delle verità. Ma non v’è dubbio che anche la sola ondata mediatica su questi temi nuoce alla credibilità della magistratura. Il cittadino sa che fare giustizia è difficile e comprende che chi gestisce interessi e potere si difende anche dai processi: ma ha sempre fiducia che i magistrati siano in grado di ristabilire la verità. Se per un attimo ha l’impressione che i giudici siano corruttibili, o avidi e spregiudicati come chi delinque – e pure indulgenti tra loro, più di quanto non lo siano rispetto agli altri – allora perde ogni speranza nelle Istituzioni.»
Qual è la reazione dei ragazzi, che incontra nelle scuole, nel sentir parlare di una mafia non visibile e qual è la domanda che si sente rivolgere più spesso da loro?
«I ragazzi hanno una sensibilità maggiore sui temi della corruzione e dunque comprendono meglio queste dinamiche della mafia non visibile. Spesso ci chiedono perchè non si fa di più nei confronti di chi si appropria delle risorse pubbliche».
Da diverso tempo lavora per migliorare la situazione delle carceri italiane, sia dei detenuti che del personale penitenziario. Ci dice tre cose su cui lo Stato è in ritardo sulla questione?
«Ne avrei trentatré… ma ne dico solo tre come mi viene richiesto. Primo, in Italia si fanno troppi processi con un rito lungo e prolisso, e si pretende di processare anche fatti di minore gravità; le risorse non si indirizzano massicce verso i fenomeni più gravi e i processi si prescrivono spesso: la fanno franca per lo più i criminali più incalliti e coloro che hanno mezzi e risorse per difendersi; in carcere finiscono molti disperati. Secondo, le carceri continuano ad avere una capienza pari a meno di un decimo di coloro che si pretenderebbe perseguire e punire con la reclusione in base alle leggi vigenti: questo rende il sistema penale privo di ogni credibilità e deterrenza ed attira sul nostro territorio la criminalità di importazione. Terzo, non esiste un progetto sulla polizia penitenziaria: una risorsa costituita da uomini valorosi e di grandissima generosità, – con 500 funzionari direttivi neoassunti tra i nostri migliori giovani – è attualmente relegata a funzioni esecutive e di custodia. Se si affidasse loro una competenza generale nella esecuzione penale, funzionerebbero meglio le misure alternative e le carceri potrebbero ospitare solo criminali pericolosi in condizioni di maggiore stabilità e sicurezza».
I magistrati che oggi cercano la verità sono ancora “soli” o qualcosa è cambiato rispetto alla solitudine in cui operavano Falcone e Borsellino?
«Quando indagano sulle responsabilità dei potenti, rimangono soli esattamente come 23 anni fa. Ma non c’è problema, anche se dovesse succedere loro qualcosa: chi li ha combattuti, da vicino e da lontano, li commemorerà commosso come è stato fatto con Falcone e Borsellino».
C’è un luogo dell’anima, in cui Sebastiano si rifugia, quando sceglie di voler stare da solo?
«Non c’è un luogo fisico esclusivo. Ce ne possono essere tanti che aiutano a stare con se stessi. Tra il mare e la terra, ma sempre e solo dentro la nostra Catania sta il rifugio. Per tutto il resto siamo cittadini del mondo».
Che speranza ha questa terra di “diventare bellissima”?
«È già bellissima, basterebbe non sporcarla».