Rohingya, quella parte del popolo birmano che non vuole nessuno

Quella dei Rohingya è una vicenda dolorosa e spietata. Si parla di un popolo intero, una minoranza come sottolineano tutti, ma pur sempre un popolo che conta  circa 800.000 individui che dal 2012 popola una zona della Birmania. Si parla di una delle  una delle minoranze più perseguitate nel mondo.

Il popolo Birmano non li vuole e ha relegato questa popolazione in campi profughi a ridosso del Bangladesh, ora una fiume di profughi da Myanmar si sta riversando nella terra di nessuno oltre il confine con il Bangladesh.

L’Onu parla di 300mila profughi della minoranza musulmana in fuga dalla reazione militare del governo birmano dopo una serie di attentati rivendicati dai ribelli dell’esercito Arakan per la Salvezza dei Rohingya (ARSA).

Costretti ad abbandonare le loro terre

Arrivano sul campo affamati e feriti denunciando saccheggi incendi e torture da parte dell’esercito birmano. In una prima ondata circa 150mila profughi hanno attraversato il confine a piedi o in barca.

Secondo i funzionari Onu sul campo servono almeno 13 milioni di dollari per l’acquisto di cibo basilare come il riso o biscotti speciali energetici per dare sostentamento alle persone.

La leader birmana respinge le accuse

La leader birmana e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, in una telefonata al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha respinto con sdegno le accuse di repressione o addirittura genocidio, bollando le notizie che circolano in Occidente come ‘fake news’.

Aung San Suu Kyi avrebbe affermato che il Governo “ha già iniziato a difendere tutti i residenti dello stato di Rakhine nel miglior modo possibile. Sappiamo molto bene, meglio della maggior parte delle persone, ciò che significa essere privati del rispetto dei diritti umani e della protezione garantita dalla democrazia”. E ha proseguito denunciando l’esistenza di fotonotizie false.

Le mine collocate dal governo del Myanmar

Il dramma di questa minoranza si aggrava ulteriormente a causa delle mine, quelle che il Governo del Myanmar ha sparso lungo il confine con il Bangladesh. Secondo le autorità di Dakka, che hanno protestato per la decisione del Paese limitrofo, si tratta di una misura studiata per evitare il rientro in patria degli esuli, che secondo le stime sono ormai 125mila.

Per il segretario generale Onu, Antonio Guterres “Si deve cambiare linea politica e riconoscere nazionalità e status sociale ai Rohingya musulmani, in modo che possano ottenere una vita normale, trovare lavoro e accedere all’istruzione”,

Il portavoce della leader birmana Aung San Suu Kyi, Zaw Htay, ha risposto che ci sono molte mine lasciate lì dagli Anni 90, ma che l’esercito non ne ha seppellite di recente. Ma ci sono testimonianze, fotografie.

Ne birmani ne bangladesi

Tra le decine di migliaia di disperati che hanno attraversato mare, paludi e fiumi in fuga dal furore del l’esercito birmano, arrivano testimonianze di ragazzi decapitati, donne stuprate, migliaia di profughi ancora nascosti nelle montagne e nelle foreste, dove rischiano di morire di fame, assediati dall’esercito o dalle milizie buddiste.

La Birmania continua a considerare i Rohingya essenzialmente non come una minoranza musulmana ma li definisce: «Solo emigranti dal Bangladesh», anche di fronte all’evidenza che i Rohingya sono in Birmania da generazioni.

La crisi dei profughi ha ormai assunto una dimensione internazionale molto seria sopratutto dopo l’annuncio del Bangladesh costretto ad aprire un nuovo campo profughi. La moglie e il figlio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha visitato il campi profughi in Bangladesh, per dare un evidente segnale di solidarietà tra musulmani.

L’ambasciata birmana a Giakarta è stata assediata dalle proteste di manifestanti islamici e il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha mandato una lettera allarmata al Consiglio di Sicurezza avvertendo che «siamo sull’orlo di una catastrofe umanitaria».

Ora la preoccupazione non è più solo la pulizia etnica, ma è come non far morire di fame una marea umana di rifugiati in un Paese povero come il Bangladesh, già vessato dalle alluvioni monsoniche. Qualcuno dovrà dare una risposta a questo popolo, considerato al momento il più perseguitato al mondo.