Rischia il licenziamento il lavoratore che critica il proprio datore di lavoro?
La Corte di Cassazione ribadisce che: “il diritto di critica trova fondamento nella nostra Costituzione che, all’art. 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
L’esercizio di tale diritto nei confronti del datore di lavoro deve essere contemperato con l’obbligo di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c.. a carico dei lavoratori, oltre che con il rispetto dei generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto.
Attenzione, però, ad un aspetto: “il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione”.
La giurisprudenza ha specificato “i limiti di continenza formale e sostanziale del legittimo esercizio del diritto di critica, legati rispettivamente alla rilevanza costituzionale dei beni che si intende tutelare attraverso la critica e alla veridicità dei fatti e alla correttezza del linguaggio adoperato”
Si badi, poi, che “la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non possa di per sé integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che NON emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e purché il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti”. Difatti, l’obbligo di fedeltà NON può tradursi in un dovere di omertà del lavoratore, tale da impedire allo stesso di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti consumati all’interno dell’azienda (Cass. Sent. n. 17689/2022).