Ricercatrice libica espulsa: asilo politico concesso e poi revocato

La vicenda riguarda Khadiga Shabbi, la ricercatrice universitaria libica condannata dal Gup di Palermo, a febbraio scorso, a un anno e otto mesi per istigazione a commettere reati in materia di terrorismo. La donna, incensurata, era stata trasferita nel Cie di Ponte Galeria a Roma e da lì aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiata in quanto nel suo Paese c’è la guerra civile.

L’accusa

La donna era accusata di legami con esponenti di organizzazioni terroristiche islamiche e foreign fighters e di una fitta attività di propaganda in favore di Al Qaeda svolta attraverso social come Facebook. Contro di lei gli investigatori hanno prodotto intercettazioni telefoniche e i dati dei suoi pc.  Dopo il verdetto la donna è stata scarcerata. Per lei era stata chiesta e ottenuta dalla Direzione distrettuale antimafia l’espulsione dall’Italia. Poi la richiesta di asilo politico richiesta dai suoi legali e concessa.

Dietrofront sull’asilo politico

Ma la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma, che aveva concesso un permesso di soggiorno umanitario a Khadiga Shabbi, ha fatto marcia indietro.

Con un provvedimento ha addebitato a un errore materiale il riferimento al permesso di soggiorno umanitario. L’invito a correggere, quello che aveva definito un provvedimento “erroneamente concesso” a Shabbi, era arrivato ieri dal ministro dell’Interno Minniti che della vicenda aveva investito il questore di Roma.

La commissione oggi ha, dunque, specificato che nel caso della ricercatrice universitaria si applica solo il principio del “no refoulement”, il non respingimento nel Paese di origine, in cui si combatte una guerra civile e Shabbi rischierebbe la vita in caso di rimpatrio.

L’esplusione

La donna, ora, secondo procedura  dovrebbe essere trasferita nell’ultimo Paese in cui è transitata prima di raggiungere l’Italia. La Digos ha prelevato Shabbi, da ieri tornata a Palermo dove aveva una borsa di studio all’Università, e l’ha portata in questura per notificarle un nuovo provvedimento. Lo rende noto il suo legale.

“Rimane un problema devastante – afferma il suo legale – perché tutta la motivazione del provvedimento dice che la Shabbi aveva diritto a restare in Italia perché in Libia c’è la guerra civile.Verificheremo se si sia trattato di un abuso e siamo pronti a denunciare tutta la vicenda alla procura di Roma. La mia assistita è distrutta da quanto successo. Mi ha detto che una volta arrivata al Cie si sarebbe tolta la vita. Ho parlato con il capo-scorta e ho chiesto la massima vigilanza per evitarlo”.

Le accuse  e le prove

La donna, secondo l’accusa, avrebbe anche cercato di pianificare l’arrivo in Italia di un suo cugino, poi morto in Libia in uno scontro a fuoco e avrebbe mandato diverse somme di denaro in Turchia. La ricercatrice sarebbe, inoltre, imparentata con esponenti di una organizzazione terroristica coinvolta nell’attentato all’ambasciata americana di Bengasi, in Libia, nel 2012 e avrebbe fatto propaganda sui social ad Al Qaeda. L’accusa è rappresentata dal Procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dal pm Geri Ferrara. Khadiga Shabbi, 46 anni, era in Italia con una borsa di studio per ricerche da svolgere presso la facoltà di Economia dell’Università di Palermo. Nel dicembre del 2015 era stata arrestata dalla Polizia, ma venne scarcerata quasi subito dal gip. Per poi tornare in galera come disposto dalla Corte di Cassazione.