Premio Ninni Cassarà a ‘La bicicletta volante’ di Fabio Giallombardo
“Un bravo poliziotto”. È questa l’espressione che ricorre spesso quando si rievoca il ricordo di Ninni Cassarà, il Vice Questore ucciso dalla mafia il 6 agosto del 1985. In memoria di questo grande uomo di Stato, che insieme alla sua squadra, diede un contributo fondamentale al contrasto a Cosa Nostra, è stato istituito dal comune di Carini il Premio Ninni Cassarà, giunto alla sua XVI edizione.
La cerimonia di premiazione si è svolta ieri presso il Cine Teatro Totuccio Aiello di Carini. Ad aggiudicarsi il prestigioso premio, consegnato dal dott. Michele Calascibetta, dirigente generale del MIUR, La bicicletta volante (Autodafé Edizioni) di Fabio Giallombardo, un racconto avvincente ed emozionante, ambientato nella Palermo degli anni ’90, in cui l’autore racconta, in forma romanzata, storie e avvenimenti realmente accaduti nel capoluogo siciliano.
Come sottolineato dalla Prof.ssa Rosalba Cassarà, sorella del Vice Questore vittima della mafia e presidente della Giuria, la scelta è ricaduta sul romanzo dell’autore palermitano, che da qualche anno vive nelle Marche, in quanto «La bicicletta volante si basa su un incontro/scontro tra due mondi opposti : uno di degrado e di soggezione alle ferree leggi della sopraffazione del più debole e l’altro dorato e apparentemente perfetto, basato sulla affermazione di sè e dei propri ideali di auto-referenzialità e di ricchezza. Questi due mondi si incontrano e trovano una sintesi nell’amore forte e sincero di Rosalia e Gaspare. Tra tutti i personaggi spicca quello di Rosalia, la cui forte volontà di riscatto nasce proprio dall’insegnamento della sua maestra elementare, che scopre in lei delle qualità intellettuali che solo la cultura può far emergere, trasformando la sua esistenza. Rosalia incarna con la sua fortissima volontà di progredire e di uscire dal ghetto, le due finalità del Premio Ninni Cassarà: legalità e cultura. Solo attraverso quest’ultimo strumento ci si può liberare dal degrado e dalla miseria e realizzare quella preziosa sintesi tra questi due elementi , il cui senso è in un messaggio rivolto ai giovani: tutto è possibile, anche rivoluzionare il mondo, se siamo capaci di coniugare nella nostra vita questi inalienabili valori».
Fabio, cosa vuol dire per lei tornare in Sicilia per ricevere il Premio Ninni Cassarà?
«Per un siciliano di mare aperto ogni ritorno all’isola è come saziare per un istante quella nostalgia che ci divora, quella seconda pelle di malinconica euforia che ci portiamo appresso sempre, anche se viviamo in continente da dieci giorni o da cinquant’anni. In questo caso per me si tratta di un ritorno speciale: volare in Sicilia per ricevere il premio Ninni Cassarà è una gioia doppia: anzitutto perché il mio romanzo viene accostato al nome di un uomo che ha reso possibile, col suo coraggio e con la sua competenza, un’importante porzione delle indagini confluite nel Maxiprocesso, un poliziotto che ha lottato pur sapendo che non avrebbe potuto vincere la sua battaglia nel breve volgere della sua vita. Un profeta civile e dei più carismatici, integri, solari. Ma è proprio grazie a giganti come lui, come Terranova, Chinnici, Montana, Falcone, Costa, Borsellino ed altri ancora che noi nani possiamo oggi arrampicarci sulle loro spalle e vedere dall’alto i contorni di un disegno che per intero ci svela la vastità del fenomeno mafioso, com’esso si è incancrenito per oltre cento anni e come questi eroi lo hanno stanato e messo a nudo, consentendo allo Stato di raccogliere alcune importanti vittorie. Inoltre mi trovo in sintonia con la stessa logica del premio, che accanto alla sezione adulti (quella per cui io vengo premiato), dà tanto spazio agli studenti: io che insegno da più di quindici anni nelle scuole condivido il fatto che la più importante fra le battaglie antimafia sia quella di coscientizzare i giovani, tramandando la memoria viva degli eroi che hanno solcato la nostra terra meravigliosa e terribile».
Il suo romanzo prende a piene mani dalla Palermo degli anni ’90, descrivendo i problemi e le contraddizioni di un sistema malato che non rendeva così dissimili le famiglie povere da quelle borghesi. È ancora così?
«Vivere a Palermo all’inizio degli anni ’90, sostenere gli esami di Maturità nell’estate delle stragi del 92, come è accaduto a me e come accade al protagonista del mio romanzo, significa aver visto coi propri occhi le vene scoperte della Sicilia proprio nel momento in cui la crisi era più acuta: io avevo 18 anni all’epoca e sembrava che il mondo stesse per crollare sulle nostre teste da un momento all’altro. Tutte le televisioni del pianeta puntavano gli occhi sulla nostra città, le bombe di Riina e i processi di Mani Pulite travolgevano un equilibrio che durava dalla seconda guerra mondiale. Ma erano anche i giorni della ribellione popolare contro la mafia, i giorni del popolo dei lenzuoli, dell’esplosione della coscienza antimafia che oggi è divenuta di moda e di maniera. Erano anni in cui, grazie al volontariato spontaneo, la città più ricca e quella più povera si mescolavano, scoprendosi molto più simili fra loro di quanto non credessero: la mafia infatti non nasce dalla ricchezza o dalla povertà, ma dal familismo amorale, da quel senso di ineluttabile destino che ci fa credere che la nostra storia sia già scritta e che non abbiamo la forza di costruirla con le nostre mani. Nella seconda metà degli anni 90 tutto questo si è inabissato, Palermo è diventata una città apparentemente più normale e il sonno voluttuoso di cui parla il Principe Fabrizio si è impadronito nuovamente delle nostre anime e di quelle di Gaspare, il protagonista de La bicicletta volante. Tuttavia tutta l’Italia è divenuta Sicilia, le stragi, persino gli omicidi sono cessati nell’isola e i colletti bianchi hanno preso il sopravvento sulle lupare. La mediocrità della politica, la corruzione dilagante, l’ignoranza diffusa sono diventate piaghe nazionali e la Sicilia non è che uno dei tanti sintomi del male nazionale e neppure il più preoccupante».
Le pesanti dichiarazioni di Vecchioni sull’inciviltà diffusa in Sicilia hanno scatenato una furiosa polemica. Partendo dal presupposto che i problemi in Sicilia non mancano, ma non mancano neanche dove Vecchioni risiede, sono plausibili simili esternazioni ?
«Nel corso delle presentazioni del mio romanzo in giro per l’Italia e per la Sicilia ho detto cose molto più gravi di quella che Vecchioni ha detto all’Università di Palermo l’altro giorno; quindi non mi scandalizzo per il turpiloqui usato dal cantautore, né per la violenza dell’invettiva. Mi stupisce solo la sua ingenuità: innanzitutto perché dovrebbe sapere quanto noi siciliani siamo permalosi, quanto ci piace spaccare il capello in quattro, criticare e critiarci, ma solo a patto che l’apostrofe venga da uno di noi, mai da un forestiero. Ma la cosa che mi stupisce di più è l’ignoranza storica che il discorso di Vecchioni manifesta: ignoranza del fatto che almeno la metà dei problemi dell’isola nascano dal fatto che la politica nazionale ha sempre usato la mafia come uno strumento di governo locale, alleandosi col parastato di Cosa Nostra e lasciando gli eroi a combatterla, a morire. Se lasci che Sagunto venga rasa al suolo, non puoi sorprenderti contemplando le rovine. L’ignoranza di Vecchioni è ancor più grave, perché oggi la mafia è più viva in Lazio e in Lombardia che in Sicilia. Lui ha cavalcato un antico cliché dell’inciviltà “genetica” del popolo siciliano, coniugata magari con la genialità dello stesso popolo: ha usato il bastone e la carota, ma ha mancato il bersaglio. Ha creato un cortocircuito concettuale ed ha scatenato l’orgoglio più patetico dei patrioti della Trinacria. Invece i problemi della Sicilia sono sociali, non genetici. Ed ormai non sono più problemi solo dell’isola, ma dell’intera nazione. Bisognerebbe analizzarli e provare a risolverli seriamente, anziché biascicare parolacce con fare un po’ teatrale, con piglio da attori tragici”.