Palermo, 26 Feb. – Da tempo ormai, da molto tempo, mi interrogo sulla possibilità concessa a tutti di esprimere il proprio voto alle consultazioni elettorali. Lo so, lo so: adesso tutti a pensare “…ma i nostri padri, i nostri nonni, i nostri avi sono morti per poterci lasciare questa sacra eredità”. Ecco, appunto!
Da anni ormai mi trovo a fare il segretario di seggio non per la paga, che è ridicola (se facciamo il conto di quanto uno scrutatore viene retribuito all’ora, non si può paragonare nemmeno a una badante rumena non messa in regola), ma come servizio al cittadino.
E tra le tante immagini deprimenti che mi porto dentro dopo ogni singola votazione, una in particolare si ripete con sconvolgente costanza: elettori che arrivano al seggio con tessere elettorali complete e vanno via senza votare (e senza nessuna intenzione di farlo) per l’insormontabile impedimento di andare a piazza Giulio Cesare, o in qualsiasi sede circoscrizionale, per rinnovarla.
Uomini e donne dai 40 ai 50 anni, che potrebbero avere come padre o nonno un combattente, uno che per poter votare, e per poter dare anche a loro la possibilità di farlo, ha dovuto imbracciare un’arma. Lontano dalle famiglie, dagli affetti, ha messo a repentaglio la propria vita per poter decidere democraticamente da chi farsi governare.
Capisco che, come magistralmente suggeritoci da Benigni, a Palermo “il trafffico” è una grave piaga, tanto da poter allontanare un onesto padre di famiglia dai propri cari addirittura per qualche ora nella faraonica impresa di raggiungere un ufficio comunale… ma da qui a diventare un impedimento maggiore di una guerra, ce ne passa.
Inoltre, quello che da sempre mi crea profondo sgomento è che uomini e donne per i quali la politica è quella cosa che si fa solo quando si vota, possano – senza nessuna coordinata di senso – pesare sul voto di tutti.
Ok, ok: chi sono io per giudicare? Nessuno. Vero. Ma molti benpensanti fricchettoni dimenticano che il diritto di voto è intimamente legato all’idea di cittadinanza. A questo punto, la domanda è: chi è il cittadino?
Alcuni potrebbero argomentare colui il quale nasce in territorio italiano da cittadini italiani. Vero.
Ma chi è veramente il cittadino, se non colui il quale partecipa alla vita di una comunità? Chi si informa, chi partecipa di una storia comune, di una tradizione comune, chi almeno ha le nozioni base di quello che a scuola chiamavamo Educazione Civica e Storia.
Il Fondo Sociale Europeo finanzia corsi per extracomunitari per ottenere il livello A2 di conoscenza della lingua italiana e, appunto, di educazione civica e storia d’Italia. Questi sono alcuni dei requisiti per poter ottenere il permesso di soggiorno.
Non dico tutto, ma almeno le basi, quanto basta per sapere cosa successe durante il ventennio fascista e che dichiararsi fascista in Italia oggi è anticostituzionale, cosa è successo nel 1946 e dopo nel 1948, qualche accenno alla prima Repubblica, a qualche articolo costituzionale.
Insomma, quanto basta per poter conoscere qualcosa della cultura della nazione che li ospita.
E, allora, quali dovrebbero essere i requisiti per dirsi cittadino e poter accedere al diritto di voto?
Per quanti italiani i congiuntivi e i condizionali potrebbero anche essere gusti di gelato?
Gerundi, participi presenti e passati? Verbi in generale? Congiunzioni?
Però, allo straniero chiediamo che almeno sappia parlare la nostra lingua. E non per votare.
Per quanti giovani, oggi, Mani Pulite altro non potrebbe essere che un prodotto per la pulizia delle mani prima di magiare un panino al Mc? E ancora, nomi dei ministri scambiati per partecipanti a qualche reality…
Quanti dedicano anche solo 30 minuti a settimana per sfogliare un giornale?
Però, all’extracomunitario facciamo il corso di educazione civica e storia d’Italia in pillole.
Senza andare troppo lontano, ai microfoni de Le Iene abbiamo assistito a parlamentari della Repubblica non sapere minimamente chi fosse Leopardi. Ora, capisco Jacopo da Lentini, ma Leopardi?
Le formazioni delle squadre di calcio vengono recitate come l’ave Maria, però.
Ecco perché mi convinco sempre di più che qualcosa nel meccanismo del voto si sia inceppato.
Ecco perché sono sempre più convinto che il voto non debba essere un diritto garantito a tutti, solo perché nati in un certo posto e da individui che a loro volta in quel luogo hanno questo diritto sacro.
Come per i nostri avi, il voto deve diventare una conquista di ogni giorno: si deve tornare a bramarlo, a lottare con dedizione e passione per poter esprime la propria opinione informata. Non si può più permettere che il voto venga scambiato, comprato, svilito, vilipeso e tutto perché – come ogni cosa che per il cittadino italiano è a sua disposizione, senza dover far niente per averla, vedi l’uso dei beni pubblici – non ha nessun valore.
Deve tornare a essere una conquista da rinnovarsi a ogni competizione elettorale.
Come realizzare questa utopia non mi è chiaro. Ma quello che ho chiaro è che, se non si cambia rotta, le scene deprimenti dei giovani che rinunciano al voto perché è noioso dover andare a cambiare la scheda elettorale, saranno sempre di più.
E, ahimé, le scene edificanti di “vecchine” e “vecchini” con seri problemi di deambulazione, di vista, o qualsiasi altro problema, sempre i primi a votare, accompagnati da figli o nipoti riottosi, orgogliosi di quel gesto, con la speranza di poter incidere positivamente nelle sorti di questi ultimi, saranno, sotto la scure del tempo, sempre meno. Fino a esaurimento.
A quel punto, con la passione civica dei nostri avi ormai spenta, il voto, per i più, sarà un diversivo domenicale dal centro commerciale.
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