Il coltello di Filippo è affondato almeno venti volte nel corpo della povera Giulia. Così dicono le prime indiscrezioni trapelate dopo l’autopsia, e non sono state smentite: la lama impugnata dalla mano dell’omicida non si è arrestata nemmeno davanti all’istintiva difesa che la ragazza ha verosimilmente provato a opporre. I tagli alle mani e alle braccia fanno pensare proprio allo strenuo tentativo di impedire al coltello di raggiungere gli organi vitali: non ce l’ha fatta, Giulia, a sottrarsi al suo assassino. Colpita alla gola, ha capito certamente che stava morendo, e chissà qual è stato il suo ultimo pensiero, prima che l’emorragia le facesse chiudere gli occhi.
Ora l’attenzione si sposta sul futuro processo, e la domanda che rimbalza tra la gente è principalmente una: Filippo Turetta avrà l’ergastolo? Ogni processo è una storia a sé, su questo non c’è dubbio: le variabili sono tante, e non è possibile dare una risposta credibile a questa domanda, tanto più che ad oggi non sappiamo nemmeno quali saranno le aggravanti che la Procura contesterà all’imputato.
La base di partenza è senza dubbio quella dell’omicidio volontario, che da solo prevede il carcere non inferiore a ventuno anni, ma dovremo attendere la formulazione del capo di imputazione per scoprire se verrà contestata la premeditazione (cioè il fatto che l’assassino ha programmato nei minimi dettagli l’uccisione di Giulia), l’aver agito con crudeltà (cioè l’essersi accanito sul corpo della vittima per procurarle sofferenze atroci), oppure l’aver commesso il fatto per motivi “abietti o futili” (ossia per ragioni particolarmente riprovevoli o prive di qualsiasi importanza).
Sul piatto della bilancia, l’accusa potrebbe anche far valere la precedente relazione affettiva che legava Giulia al suo assassino. Ciascuna di queste aggravanti, da sola considerata, permette la condanna all’ergastolo e impedisce l’accesso al rito abbreviato: il processo, quindi, dovrà celebrarsi necessariamente davanti alla corte d’Assise. Ciò non toglie, comunque, che il “fine pena mai” potrebbe essere scongiurato dalla concessione di eventuali attenuanti: il codice ne contiene un lungo elenco. Si va dal risarcimento del danno per arrivare fino alle “attenuanti generiche”, che consentirebbero alla corte di valorizzare qualsiasi aspetto della personalità dell’imputato, oppure qualunque fatto concreto possa giustificare la diminuzione della pena.
Pensiamo, per esempio, alla confessione: questa è solitamente una delle ragioni che portano al riconoscimento delle attenuanti generiche, sempre se chi ha confessato non si è limitato a confermare ciò che l’autorità giudiziaria ha già appreso con le proprie indagini. Occorre, quindi, che l’autore del fatto sveli elementi e circostanze diverse da quelle già conosciute dagli inquirenti, altrimenti la confessione non ha alcuna rilevanza. Anche l’incensuratezza può contribuire ad allontanare lo spettro dell’ergastolo, a condizione che questo elemento non sia l’unico dalla parte dell’imputato.
L’immagine che viene in mente, per capire il meccanismo dell’applicazione della pena, è un po’ quella della bilancia, che è il simbolo stesso della giustizia (quella con la G maiuscola): se i due piatti sono in equilibrio non ci sono nè aggravanti, nè attenuanti: niente ergastolo, ma reclusione per almeno ventun’anni. Se la bilancia dovesse pendere da lato delle aggravanti le porte del carcere si chiuderebbero a vita dietro le spalle dell’imputato, mentre se dovesse inclinarsi dal lato opposto la sua pena potrebbe sensibilmente ridursi.
Questo, in linea del tutto generale, lo scenario teorico di un processo per omicidio volontario. Rimane, poi, da sciogliere il nodo sulla capacità di intendere e volere dell’assassino al momento del fatto. Se ne sente un gran parlare, anche se ad oggi non pare che ci siano elementi concreti in grado di farne dubitare. Anche in questo caso, le eventualità che possono verificarsi quando un imputato viene giudicato totalmente o parzialmente incapace sono due: se l’incapacità è totale si viene prosciolti, mentre se è parziale la pena è diminuita.
Però intendiamoci: incapace di intendere e volere significa che, per ragioni patologiche riconosciute da un medico, l’imputato non deve essere stato in grado nè di comprendere cosa stesse facendo, nè di frenare i propri impulsi. Oppure che ne era cosciente soltanto parzialmente.
Non bisogna confondere questa condizione – cioè quella dell’incapace, totale o parziale – con quella di chi ha agito sotto lo stimolo dell’ira, o di una (malsana) passione nei confronti della vittima: questo stato emotivo può incidere sulla pena soltanto se raggiunge in concreto le dimensioni e l’importanza di una vera e propria malattia, cioè se fa venir meno totalmente o parzialmente la capacità di intendere e volere. Vedremo adesso quali saranno le mosse dell’accusa: tutto lascia pensare che si andrà dritti al dibattimento, dove si giocherà la partita decisiva.
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