L’omicidio dello Zen, dove la presenza dello Stato è un incidente di percorso

Con la confessione di Fabio Chianchiano sembrano chiariti tutti i contorni dell’omicidio di Franco Mazzè, avvenuto la domenica delle Palme, in una strada dello Zen. Questa volta gli occhi che hanno visto la scena sono stati decisivi per la cattura dei killer: non sono gli occhi delle decine di testimoni che hanno assistito prima alla lite dentro il bar e poi all’agguato, ma quelli delle telecamere di sicurezza, che hanno ripreso le varie fasi, consegnando agli inquirenti i colpevoli.
La dinamica è chiara: fra Chianchiano e uno dei nove fratelli Mazzè, famiglia che si è distinta nel controllo di varie attività criminali nel quartiere, c’è una prova di forza, prima psicologica, che degenera in una vera e propria rissa.
L’intervento degli altri avventori del bar separa i due, ma la questione è tutt’altro che conclusa. Chianchiano sa che litigare con uno dei fratelli Mazzè significa mettersi contro tutta la famiglia e decide di prendere l’iniziativa.
Chiama l’amico 53enne Stefano Biondo e lo coinvolge in una missione di morte: con l’auto intestata alla moglie di Biondo, i due seguono Franco Mazzè, il boss riconosciuto della famiglia “nemica” e, mentre Chianchiano scende e spara per uccidere, il complice lo aspetta in auto per la seconda tappa della missione: la casa di Michele Moceo, cognato della vittima,e strettamente legato al clan dei Mazzè. In questo caso si tratta di prevenire una possibile reazione, ed anche questa scena si svolge davanti alle telecamere, .
Chianchiano scende dall’auto e spara numerosi colpi di pistola verso le finestre ad altezza d’uomo, ma in casa c’è solo la moglie di Moceo che riesce a fuggire incolume.
Agli inquirenti che gli facevano notare l’illogicità del gesto, il killer ha risposto che aveva perso la testa in preda alla rabbia.
Oltre alla confessione sostanzialmente obbligata, visto che c’era già una prova visiva, Chianchiano ha fatto ritrovare anche giubbotto e maglietta, usati durante la sparatoria, mentre non ha voluto parlare dell’arma. La parabellum calibro nove è stata ritrovata grazie ad una telefonata anonima, che ha indicato una aiuola del quartiere dove era stata gettata.
Gli inquirenti sono convinti che non di un aiuto alle indagini si tratta, ma della voglia di chiudere in fretta un caso che sta nuocendo gravemente agli affari criminali del quartiere. Lo spiegamento di forze di polizia, ha fatto crollare il traffico e lo spaccio di stupefacenti su cui si regge l’economia “sommersa” del quartiere, dove la presenza dello Stato è un incidente di percorso, che turba una quotidianità fatta di violenze e soprusi.