Libia: perché siamo sull’orlo della guerra e cosa ci dobbiamo aspettare
La chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultima rappresentanza diplomatica occidentale rimasta in Libia, è il segno del precipitare della crisi. I miliziani del Califfato islamico sono arrivati a Derna e e continuano ad avanzare, a poche centinaia di chilometri dalla Sicilia. C’è però anche un aspetto economico della Libia del dopo Gheddafi che, grazie al trio delle meraviglie Obama, Merkel e Sarkozy (con lo zampino di Napolitano) ci siamo affrettati a deporre per “esportare la democrazia”.
Il risultato è che stiamo importando caos e ingovernabilità, con una minaccia di guerra mai così vicina dai tempi di Mussolini: tutto ciò per assecondare le velleità della Francia il cui primo obiettivo, probabilmente, era quello di scalzarci dalla posizione di primo partner commerciale con il Paese nord africano. Ora le conseguenze vengono pagate da tutti, a cominciare dai profughi che scappano a migliaia dal terrore islamico e dagli stessi libici, liberati dalla padella del colonnello dittatore e finiti nella brace dei tagliatori di teste dell’ISIS.
Ma parlavamo di risvolti economici: in primo luogo il petrolio dell’Eni: l’Italia importava circa il 20% del petrolio e il 10% del gas prodotto dalla Libia.
Quando abbiamo sotterrato Gheddafi, con grande giubilo delle “anime belle” della democrazia universale che mimetizza gli interessi petroliferi dei nostri alleati occidentali, la Libia produceva 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno: adesso la produzione media non supera i 400 mila e dipende dall’andamento delle azioni belliche: a gennaio è scesa ad appena 150 mila barili al giorno, mentre ad ottobre scorso erano 1 milione.
E’ abbastanza probabile che, se l’avanzata dei miliziani ISIS dovesse continuare, quello che resta del governo libico bloccherebbe del tutto l’estrazione.
Se ciò dovesse accadere avremmo un effetto combinato dall’esito opposto: da un lato l’assenza del petrolio libico dai mercati internazionali provocherebbe un aumento delle quotazioni, per la legge della domanda e dell’offerta; dall’altro l’ISIS sta già immettendo sul mercato clandestino internazionale il petrolio degli impianti passati sotto il suo controllo, ovviamente a prezzi più bassi di quello legale, per autofinanziare le proprie azioni militari, come già abbondantemente sperimentato in Iraq.
Noi rispondiamo a questo rischio con le dichiarazioni bellicose del mite Gentiloni che, violentando la sua indole e il suo cognome, sembra parafrasare il duce con il suo “spezzeremo le reni all’ISIS”.
Rischiamo di compiere un altro errore gravissimo: intanto le intempestive dichiarazioni del ministro di Renzi ci hanno messo senza motivo nel mirino del terrorismo internazionale. La nostra diplomazia doveva infatti lavorare “sotto traccia” e senza strepiti ad una azione dell’ONU, cui poi ci saremmo accodati come tanti, secondo le nostre capacità militari che nessuno è in grado di valutare in uno scontro su terreno aperto (che vorremmo tutti evitare).
L’obiettivo prioritario dovrebbe, invece, essere quello di convincere gli Stati islamici moderati che i primi ad essere penalizzati sotto il profilo economico e della sicurezza sono proprio loro ed è quindi da lì che dovrebbe partire una risposta militare (vedi Giordania), per evitare di concedere agli strateghi del califfato il vantaggio di poter chiamare alle armi i musulmani di tutto il mondo contro le “Nuove Crociate”.
Il problema è che negli ultimi decenni la politica non è morta solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale dove il consenso di acquisisce non grazie alle competenza e alla visione strategica, ma attraverso il controllo o l’uso dei mezzi di comunicazione tradizionali e/o innovativi.
E così ci ritroviamo leader inadeguati e impreparati a quello che sta accadendo a cominciare da Barack Obama, insuperabile quando si tratta di organizzare gag sul web, ma del tutto sprovveduto in politica estera.
Che Dio (o Allah) ce la mandi buona!