L’ex presidente del Senato Pietro Grasso ricorda il maxiprocesso
“Inventarsi una strategia, di giorno in giorno, per non rallentare il processo, combattere gli avvocati della difesa che invece cercavano di far scattare la decadenza dei termini di carcerazione”. A partire da quell’appello giornaliero, lunghissimo: 475 nomi.
“Ideammo un metodo per evitare l’elenco. Alla fine con i suoi 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione, migliaia di pagine di condanne, 114 assoluzioni e diversi miliardi di ammende, il maxiprocesso – in primo grado, dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987 – fu un dibattimento giusto”.
L’ex presidente del Senato Pietro Grasso stamattina (30 ottobre) in aula bunker, invitato dalle Vie dei Tesori, ha ripercorso quei mesi difficilissimi, davanti a tanti giovani, famiglie, cittadini per i quali era importante ascoltare la testimonianza di chi è stato il giudice a latere del maxiprocesso. E Pietro Grasso ricorda benissimo ogni particolare, come prima di lui altri magistrati e cronisti del tempo, invitati dal presidente del festival, Laura Anello, che hanno voluto offrire la loro testimonianza durante questo ultimo appuntamento del festival che in due mesi ha avuto oltre duecentomila visitatori.
“La vita di tutti valeva poco, il Giornale L’Ora pubblicava ogni giorno il numero dei morti, c’erano gli autoblindo della polizia nelle strade: in questo clima iniziava il maxiprocesso che ritengo una forma di liberazione da un incubo. Ricordo quei minuti in maniera indelebile: il giudice lesse la formula di impegno della giuria popolare e capimmo che il momento era arrivato – ricorda Grasso -.
Ognuno dei sei giudici popolari e dei due giudici togati aveva due sostituti, nel caso in cui venisse ucciso: in caso contrario, il processo sarebbe dovuto ricominciare daccapo. Il giorno prima il presidente Alfonso Giordano aveva acquistato in un negozio di antiquariato, il crocifisso che vedete ancora alle mie spalle: è lì da allora”. E ancora. “Quando entrò in sala Buscetta, il primo pentito di mafia, scese il silenzio, era ancora una figura carismatica e se ne avvertiva la potenza. Nella gabbia di fronte ai giudici c’era Luciano Liggio con il suo sigaro spento tra le labbra, voleva avere l’aria del boss ma non contava più nulla. Nella gabbia numero 23 entrò Michele Greco, il Papa: apparso lui il processo assunse un altro ritmo”.
Quando giunse la notizie dell’omicidio del piccolo Claudio Domino, 11 anni, i giornali titolarono “Belve!”. Giovanni Bontate chiese la parola e dalla sua gabbia, a nome di tutti gli altri imputati, condannò l’omicidio. “Con quella dichiarazione , per la prima volta un mafioso pronunciò la parola ‘noi´: noi, significava noi mafiosi. Loro stessi ammettevano la loro esistenza. Era senza precedenti – spiega Grasso – con il racconto dei pentiti, termini come famiglia, rispetto, uomo d’onore con il maxiprocesso si caricavano di altri valori negativi”. L’ex presidente del Senato ha condotto nove incontri di seguito: alla fine il pubblico in piedi l’ha ringraziato con un lungo applauso.