Lavoro: arriva Skeym, il videogioco italiano per assumere millennials
I millenials, nativi digitali per eccellenza, sono talenti emergenti, che ricoprono oggi nuove posizioni lavorative. Per selezionarli, però, la stragrande maggioranza delle aziende utilizza ancora strumenti obsoleti, costosi e facili da aggirare. Spesso i candidati che rispondono ad un’offerta di lavoro, si ritrovano infatti a dover compilare pagine e pagine di questionari, che dovrebbero servire ai recruiter per operare una prima scrematura.
Ma se a fare questo lavoro fosse un videogioco?
Questo il progetto ideato dalla startup Ranaway, che ha sviluppato Skeym, una piattaforma che permetterà alle aziende di poter individuare competenze e attitudini dei loro aspiranti impiegati, attraverso l’utilizzo di un videogioco coinvolgente e divertente.
Ne parliamo con Salvo Mica, gamification designer, che insieme ad Alessandro Leone, Ux designer, ha fondato a Londra Ranaway, il cui primo prototipo di videogame è già in fase di validazione, grazie al supporto scientifico del Dipartimento di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione dell’Università di Bologna.
Come nasce l’idea di selezionare il personale facendolo giocare?
«Nasce da una richiesta: ci era stata commissionata la creazione di un videogame specifico per un “assessment”, ovvero la procedura di valutazione. Lavorando a questo progetto abbiamo cominciato a pensare quali sono i limiti dei metodi di valutazione tradizionali e quanto fosse antieconomico sviluppare un videogame per assessment.
Così abbiamo iniziato a pensare ad una soluzione scalabile, che rendesse il videogioco economico, efficace e utile. Una soluzione che potesse essere utilizzata come soluzione di massa, non solo per gli assessment di aziende che hanno un budget alto, ma anche per le piccole e medie imprese. Da qui l’idea di creare Skeym, che è la risposta a questo tipo di esigenze».
In che modo funziona la piattaforma?
«L’HR Consultant, ovvero chi si occupa di selezionare il personale, una volta entrato all’interno della piattaforma, decide la trama, i personaggi e la grafica del videogioco. Il passo successivo è l’acquisto degli accessi, da inviare ai candidati, che giocando, prenderanno decisioni, proveranno a risolvere dei problemi e interagiranno con altri personaggi».
Siete il primo team italiano a portare avanti un progetto sul recruitment basato su un videogioco?
«Assolutamente si. Nel mondo ci sono altri 6 competitors che realizzano videogame per assessment o assestment gamificato».
Questa piattaforma può essere utilizzata anche in momento successivo alla fase di recruitment?
«Si, ad esempio nei casi di change managment o di ricollocamento di alcune risorse».
Che feedback avete avuto finora dalle aziende?
«Devo dire molto positivi. Al momento ci sono circa 15 aziende interessate a Skeym, il che vuol dire circa 8.000 potenziali assestment venduti. Anzi, a dire il vero 500 sono stati già preacquistati da un’azienda che non ha neanche atteso che il prodotto fosse finito».
Sono più aziende italiane o estere?
«In questa fase ci stiamo rivolgendo esclusivamente alle aziende italiane che fanno parte del network con cui eravamo già in contatto prima di realizzare Skeym».
Però fate base a Londra
«Si, per svariati motivi. Innanzitutto l’accesso ad un network di investitori, di Angels e di Venture Capitals veramente vasto. Per non parlare della facilitazione amministrativa: incomparabile con quella italiana. Velocità anche nell’accedere a delle competenze che per noi sono essenziali. Faccio sempre l’esempio dell’assicuratrice con cui parlavo a Londra, che capiva perfettamente quali erano le esigenze di un’assicurazione per un software SaaS, che lavora con il mercato online. Sono abituati al business digitale, quindi hanno sviluppato prodotti e servizi specifici. E’ un qualcosa che in Italia non avremmo trovato facilmente».
Ranaway sostiene che le aziende dovrebbero svecchiare le modalità di selezione e reclutamento dei millenials, cercando di stimolarli continuamente. Perché?
«Perché i millenials sono una delle generazioni più bombardate da informazioni rispetto alle generazioni precedenti, quindi hanno istintivamente creato delle barriere verso l’esterno. Fanno più cose contemporaneamente, rispondono a dei media, che sono visuali e interattivi, e che utilizzano il loro linguaggio, il loro modo di vedere e interagire con il mondo. Vanno motivati perché vogliono sentirsi coinvolti.
Le grandi aziende, ma anche le startup che scalano hanno una grande difficoltà nel trattenere i talenti. I millenials hanno bisogno di stimoli continui, di una crescita continua. Se l’azienda non fa quello che si chiama employer branding, ovvero se non riesce a trasmettere i propri valori, il proprio carattere e a intercettare la loro energia, li perde. E perde soprattutto quelli più bravi, se non riesce a portare la loro progettualità in azienda».