Catania

“La voce a te donata”, Paola Tricomi: “La felicità è il mito moderno della perdizione”

Musica e poesia alla Feltrinelli di Catania. La poetessa Paola Tricomi, classe 1991, ha presentato la sua terza raccolta di poesie, “La voce a te donata” (Algra editore), accompagnata  da Antonio Sichera, Ordinario di Letteratura moderna presso l’Università di Catania, e insieme a Giuseppe Frazzetto, docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo stesso Ateneo.

Uno storico dell’arte e un italianista hanno letto, commentato, sciolto e riavvolto il nastro di una poesia “immaginifica, metafisica, mitica, in stretto senso etimologico”.

È stato scritto e detto tanto sulla sua poesia, ma «essere parola» presuppone qualcuno che ascolti. A chi, o a cosa, si rivolge la poesia di Paola Tricomi?

«La mia parola, che sia canzone, filastrocca, nenia, favola, racconto o poesia, non intende inquadrarsi in un genere e non si pone una tipologia di lettore. Credo che le definizioni oggi non rendano più la chiarezza, ma solo isolamento. Definire, isola e circoscrive. Io invece desidero con la mia parola spalancare e denudare, condurre al radicale dei rapporti e dell’esistenza. Forse per questo amo il verso: sbuca come uno scoglio nell’infinito bianco e, lacerando, ritrae emozione, eco e istante. Il mio lettore ideale sarebbe l’universale umano che rimane in ascolto della propria intimità e di quella del prossimo. La mia materia sarebbe la vita nella pasta della vita che da sola si proietta verso il suo oltre. Uso il condizionale per lasciare lo spazio del dubbio, unica vera sede di onestà. Ho una certezza, tuttavia: la mia parola non è per chi non è disposto al confronto, aspro e duro, che ti sconvolge nelle visceri. Non il confronto con me, ma con la realtà dell’esistere».

 

Leggiamo dalla sua biografia, che lei ha fatto studi classici. Cosa c’è di antico nella sua poesia? Cosa c’è di classico nella sua ispirazione?

«Io non sarei io senza gli antichi classici. Loro mi hanno plasmato interamente. La mia prima raccolta di poesie si intitolava non a caso En thumò, tradotto un po’ largamente in “Nel cuore”. In molti componimenti mi esprimo con qualche parola direttamente in greco antico o latino, non perché voglia fare sfoggio di erudizione o voglia incrementare l’ostico della poesia, ma perché esistono valenze di significato che solo l’espressione originale può trasmettere. Di antico nella mia scrittura c’è tutto, ma in particolare la tensione verso le domande esistenziali dell’uomo e lo scavo interiore: questa linea che passa attraverso l’animo e si pone in racconto del mondo. Di classico nella mia ispirazione c’è il mito, la lirica greca (Saffo, Mimnermo, Pindaro), la tragedia greca, la sfumatura latina (Ovidio, Virgilio, Orazio, Catullo, Properzio), la filosofia».

 

«Non siamo qui per essere felici, ma per lasciarci spalancare». Quanto questa tua poesia ha che fare con lei?

«Non sono ‘Il giovane favoloso’, anche se lo amo senza limiti (non il protagonista del Film, ma il Leopardi vero). Non c’è una vena di pessimismo nella mia trama poetica, se non quell’occasionale tono malinconico proprio della vita. Ogni mia poesia ha a che fare con me, ma non con la mia biografia, bensì col mio modo di stare al mondo psichicamente e spiritualmente. Io credo che la felicità, nel valore che gli diamo oggi, sia un mito moderno di perdizione. Non siamo qui per quella felicità illusoria che il mondo ci fa credere di meritare e poter conquistare tutti, anche a costo di impoverire il nostro simile. La felicità invece si raggiunge solo proiettandoci verso il nostro simile, il nostro nemico, il nostro opposto. Quel non luogo di confine e di abbraccio di chiunque fino alla perdita della propria identità è la sede della felicità autentica, nonché lo scopo dell’esistenza, per me. Questo avevo in mente quando ho scritto il verso».

 

Una provocazione. Ha ancora senso fare poesia? A chi interessa?

«No, non ha senso. I potenti del mondo ci spingono a guardare altrove, ci distolgono e incatenano. Proprio per questo per me c’è valore nel fare poesia: perché è considerato inutile. Dice Keats: “il poeta è un amico che non ti tradirà mai perché non ha interesse nel farlo.” La poesia, la letteratura sono ancore per rimanere umani, tetti per proteggerci, pozzi per ritrovare risorse, ma con la potenza di edificare dentro noi e non altrove. Per questo è essenziale per tutti, pur senza senso, fare poesia».

 

Terza raccolta di poesie. Cos’è cambiato dal “Nel cuore-En thumò” e da “Il nome del Nulla”?

«È cambiato molto (nella struttura del verso, nei ritmi, nell’uso dei termini, nelle immagini, in alcuni temi), ma resta per me un filo rosso di continuità sia nella tensione al mistero, sia nel legame con la vita. Si spostano entrambe le propensioni più sul versante fisico (il rapporto col corpo, la materialità dell’esistenza) che su quello filosofico delle prime, ma resta il luogo metafisico costante. Tra i grandi nuovi temi ci sono la morte e il tempo».

 

         Ma cosa c’è nella biblioteca di Paola Tricomi? Cosa legge Paola?

«C’è molto studio che purtroppo mi ha un po’ distolto dalle letture dirette e autentiche. Al di fuori dei classici, di cui già si è detto, da un po’ di anni leggo approfonditamente Dante e Quasimodo. Mi sto avvicinando alla poesia orientale (persiana, indiana, araba), approfondisco la tedesca e la inglese. Trovo grande affinità con Celan. C’è molto anche dei romanzi dell’800 e di mistica. Adoro Calvino.

Martina Sapone

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