Si corre tutti, duecento metri di sprint fra la stazione e l’imbarco dei traghetti. Corre una mamma romena con la figlioletta di un anno e mezzo in braccio, «da stamattina in viaggio, prima da Bucarest a Catania, poi da Catania a Messina, adesso qui… Corre uno studente universitario con il trolley che ballonzola sull’asfalto dissestato; avanzano a braccetto due anziani sulle gambe malferme, le braccia piene di sacchetti della spesa. E corro io, arrivata alla stazione di Messina centrale dopo 3 ore e 38 minuti di viaggio in treno da Palermo, il Regionale delle 11,08 che si ferma in tutte le stazioni, tra scorci di mare, pale di fico d’India, campetti sportivi sterrati. Non restava che questo, una volta perduto l’Intercity delle 10,05 che ce l’avrebbe fatta a coprire i duecento chilometri di tragitto nel mirabolante tempo di due ore e 50. E adesso, dopo avere sferragliato sulle rotaie per tutta la mattina, ho cinque minuti per arrivare dal binario al molo dei traghetti per la Calabria. Dalle 14,45 alle 14.50.
Dove sono gli imbarchi? Urla una voce: «Costeggi il binario 1, altrimenti esca dalla stazione e vada a destra, la nave si vede, saranno duecento metri». Adocchio il gruppo che corre verso il mare e mi unisco per intuito. Corre pure un cane nero, «è la mascotte, fa sempre avanti e indietro», ride un operaio di un cantiere vicino. Si arranca, superando marciapiedi e ostacoli, si fatica davanti alla sede dell’associazione mutilati e invalidi di guerra che sembra stare lì per contrappasso. E si arriva tutti sconfitti al traguardo, mentre il ferry-boat già lascia la banchina.
«È appena partito, il prossimo tra un’ora, alle 15,50», risponde l’uomo della biglietteria. Mezz’ora per traghettare, due euro e 20 il biglietto. «A meno che non voglia prendere il mezzo veloce per Reggio Calabria, ci mette dieci minuti in meno». «Mezzo veloce!», rispondiamo in coro. Peccato che parta due ore dopo.
E allora eccoci, 21 passeggeri, a guardare il catamarano «Enotria» della BluFerries che prende il largo verso Villa San Giovanni, la punta della Penisola, tre chilometri d’acqua che dai Romani in poi tutti hanno pensato invano di collegare. Un braccio di mare su cui oggi si gioca l’estrema partita sull’isolamento della Sicilia.
Trenitalia ha annunciato (e poi verbalmente revocato) dal 13 giugno lo stop al traghettamento dei treni, finora «tagliati» a pezzi alla partenza, imbarcati e poi ricomposti all’arrivo. I sindacati hanno issato il vessillo di guerra, tanto che mercoledì ci sarà una manifestazione proprio qui, sullo Stretto, in nome della continuità territoriale. Ma la verità è che ormai la battaglia è simbolica, perché i treni a lunga percorrenza che «scavalcano» lo Stretto quasi non esistono più. Fino al 2009 erano 54. Adesso ne sono rimasti cinque: quattro da Palermo e Siracusa con destinazione Roma, uno diretto a Milano. Per il resto si deve già andare a piedi: scendere dal treno, prendere il traghetto, aspettare un altro convoglio.
Ci pensi, mentre dopo un’ora di attesa sali finalmente sul ferry-boat, e annusi l’odore stordente del disinfettante, e guardi la vetrina dell’angolo bar con tre arancine, cinque croissant, tre pacchetti di patatine. Malinconico, ma sempre qualcosa rispetto al nulla del treno da Palermo a Messina. Nulla. Neanche una bottiglia d’acqua o un panino. Chi non lo sa, può solo contare sulla generosità dei compagni di avventura più attrezzati, con le borse cariche di provviste come prima di andare in guerra. Arrivi a Villa San Giovanni alle 16,20 e hai voglia di piantare una bandierina come per la conquista della Luna: ci hai messo cinque ore e mezza per raggiungere l’altra sponda. Ma ci metti poco a realizzare che l’altra sponda è ancora il deserto: un baracchino prefabbricato a vendere i biglietti, il bar chiuso, una brutta pensilina blu che porta alla stazione ferroviaria. Da qui i treni vanno solo a Reggio Calabria, uno a Cosenza, il primo che riesce a «bucare» la Calabria è quello per Milano delle 18,45. Alle 21,55 c’è quello per Torino. Alle 23,20 quello per Bari. Sei arrivato, ma nel nulla, e fatichi a contenere un senso di claustrofobia e di rabbia. Cristo si è fermato a Salerno, ultima tappa dell’alta velocità che arriva dal Nord.
Sul traghetto di ritorno non ci sono più neanche le arancine, il cielo si è annuvolato, la stanchezza segna le facce dei pendolari. Ma bisogna stare all’erta, perché approda alle 17,10 e il treno “veloce” per Palermo parte alle 17,13, anche questa volta a dispetto del buon senso. Questa volta per fare i duecento metri ci sono soltanto tre minuti. Corrono di nuovo tutti. Ma quel convoglio è già partito, resta un Regionale che ci mette le solite tre ore e mezza. Si sale a bordo rassegnati, e questa volta è un giovane militare che offre crackers e caramelle, mentre racconta che i generi di conforto dell’Esercito sono stati tagliati. Parla della sua missione in Afghanistan, mentre il treno sferraglia nel buio.
Finchè il treno si ferma a pochi chilometri da Palermo e resta fermo e chiuso senza che appaia nessuno a spiegare perché. «C’è un morto sulle rotaie, non si può passare», dice alla fine un controllore che sale a bordo. Già, c’è un solo binario, niente scappatoie. L’arrivo è alle 11 e mezza di sera. Ci ho messo dodici ore per fare poco più di 400 chilometri: 33 chilometri all’ora. C’è un cane anche qui. Ma non corre. Dorme.
Laura Anello (da La Stampa)
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