PALERMO – Pippo Delbono, una delle intelligenze più originali e acute della scena attuale, premio speciale per la regia ai Nastri d’argento per il film “Vangelo”, regista italiano più invitato all’estero, rilegge al Teatro Massimo di Palermo “La Passione secondo Giovanni” di Bach in forma scenica, trasformando l’oratorio in uno spettacolo vibrante e poetico dove Cristo è nero ed è il Cristo degli ultimi, dei deboli, dei poveri, dei profughi.
Maestro concertatore e direttore il palermitano Ignazio Maria Schifani, costumi di Alberto Cavallotti, luci di Salvatore Spataro. L’evangelista è Nathan Vale, Gesù è Ugo Guagliardo, soprano Marleen Mauch, alto Nils Wanderer, tenore Alessandro Luciano, baritono Giorgio Caoduro. Orchestra, coro e coro di voci bianche del Teatro Massimo, maestro del coro Pietro Monti, maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo, violoncello barocco e viola da gamba Francesco Galligioni, basso continuo all’organo Basilio Timpanaro.
Lo spettacolo, un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro San Carlo di Napoli e l’Opera di Roma, debutta giovedì 27 aprile alle 18.30, per essere replicato venerdì 28 aprile alla stessa ora e sabato 29 aprile alle 20.30, alla presenza della critica italiana e straniera.
La composizione, eseguita per la prima volta nella chiesa di San Nicola di Lipsia, il 7 aprile del 1724, era originariamente presentata all’interno della celebrazione liturgica: una parte prima e una dopo la predica. Si tratta di una forma oratoriale di Passione in stile polifonico, che prevede la presenza di solisti, coro e strumenti. È costruita sui capitoli 18 e 19 del Vangelo di Giovanni, con alcuni inserti da quello di Matteo.
Del Bono (che è anche attore, teatrale e cinematografico) è presente in scena, una scena scarna, delimitata da impalcature e da tralicci, opera di Renzo Milan, direttore dell’allestimento scenico del Teatro Massimo. “Una scena – spiega il regista – che evoca la memoria dei condannati a morte, degli emigranti disperati che muoiono in mare, degli operai che cadono dalle impalcature del lavoro, di coloro che si tolgono la vita e che guardano nel vuoto”. Delbono recita un testo in lingua italiana che fa da contrappunto ai recitativi e ai corali in tedesco dell’oratorio. In scena, accanto a lui, alcune sue presenze-icona: primo tra tutti Bobò, il sordomuto e analfabeta che è stato rinchiuso nel manicomio di Aversa per 47 anni e che è diventato un volto stabile nei lavori del regista, a lui legato da un profondissimo rapporto umano. In scena altri quindici attori sordomuti.
La narrazione inizia dall’episodio dell’arresto nell’orto, commentato da due corali che si inseriscono fra la narrazione dell’evangelista e i brevi interventi di Gesù e del coro. La morte di Cristo occupa il momento di maggior rilievo nell’architettura dell’opera, che si conclude con la deposizione in cui il credente invoca la misericordia del Signore e professa la sua fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna.
È la quarta incursione di Delbono nella cornice del teatro d’opera istituzionale, dopo due fortunate regie montate al San Carlo, Cavalleria Rusticana e Madama Butterfly, e dopo un Don Giovanni in Polonia. “Questa Passione ha un impianto brechtiano – dice il regista – ci mostra la lucida consapevolezza di un io che narra una storia, l’Evangelista. E ci sono personaggi che entrano ed escono dalla vicenda. Non è vero che non ha una storia, ce l’ha eccome, fortissima. Io ho lavorato per tirare fuori la teatralità che l’opera possiede intrinsecamente, con gesti semplici come una frustata, una pietra che batte su un chiodo. Bobò, con la sua presenza straniata e poetica, porta un segno di speranza, un fiore, porta l’esperienza della sua vita, la sua saggezza”.
In scena scorrono il recitato per la descrizione evangelica, i cori per gli interventi della turba (giudei, soldati, sacerdoti), le arie solistiche per il raccoglimento interiore, i corali per i momenti di meditazione collettiva. “Per me – aggiunge – Cristo è il Cristo degli ultimi, che scende e si crocifigge insieme agli ultimi, lontano anni luce dal Cristo biondo dell’iconografia corrente. Io, che pratico il buddismo da ventisette anni, ho lavorato sul Vangelo e leggo Cristo come un grande Buddha”.
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