Abbiamo il fondato sospetto che se si intercettassero le conversazioni dei consulenti, dei collaboratori, dei faccendieri, insomma di tutta la compagnia di giro che circonda l’80% dei politici italiani di spicco, non troveremmo soltanto Rolex e vestiti che, come nel caso del ministro Lupi, non rientrano fra i reati penali, ma inequivocabili prove di un sistema di scambi e favori che pervade la gestione delle risorse pubbliche.
Ne deriva che il primo scandalo di Tangentopoli del 1992, non solo non ha limitato gli sprechi e gli abusi ma, se possibile, li ha incentivati: fino a quella data, infatti, la corruzione era in gran parte finalizzata a sostenere “i costi della politica” cioè le casse dei partiti e chi aveva le mani in pasta ne approfittava anche personalmente.
Adesso, invece, si ruba, si intrallazza, si truccano le gare per ottenere vantaggi per sé, per la propria famiglia in senso lato e per i gruppi che sostengono le campagne elettorali, senza neanche l’alibi dell’ideologia.
Così stando le cose, l’intervento della magistratura, l’unico organo dello Stato con cui si può sperare di arginare il saccheggio delle risorse pubbliche, si trasforma di fatto, volontariamente o involontariamente, in una ingerenza politica: per gli indagati o anche per coloro che non essendolo, rientrano nelle intercettazioni, c’è la gogna mediatica, per tutti gli altri continua l’intrallazzo e l’impunità.
Se facessimo uno screening dei figli dei politici di primo, secondo e terzo livello, quanti ne troveremmo disoccupati e senza privilegi? Come può uno come Incalza, che dettava legge su tutte le opere pubbliche restare in carica per anni e anni con governi di tutte le bandiere? La risposta è semplice, faceva comodo a tutta la politica per la sua capacità di dirottare soldi e lavori dove soffia il vento.
Quindi è giusto che Lupi si dimetta, dopo averlo sentito parlare al telefono del suo modo di vedere la gestione della Cosa Pubblica, ma resta la spiacevole sensazione che tanti come lui, o peggio di lui, continueranno a banchettare alle nostre spalle.
Per rientrare nei confini della nostra isola, è interessante commentare il “caso Agrigento” anzi il “Kaos Agrigento” visto che siamo nella terra di Pirandello.
In vista delle prossime elezioni del sindaco si è formata una larga coalizione che va dal PD a Forza Italia, per una gestione condivisa di una città allo sbando.
Nulla di male sulla carta: accade ovunque che, in situazione di crisi ci si metta insieme per affrontare l’emergenza.
Nella realtà però si assiste al solito gioco di riposizionamento: gran parte dei candidati ha una lunga carriera alle spalle con vari cambi di casacca e tutto lascia pensare che questa “Grosse Koalition” non sia altro che una invenzione trasformistica per costringere gli elettori disgustati a votare per i soliti noti.
Esemplare lo scontro Fra D’Alia e Cimino, due personaggi che hanno attraversato la politica adeguandosi a tutti i mutamenti (per dirla eufemisticamente).
D’Alia ha accusato i manager agrigentini di appoggiare apertamente la nuova compagine, biasimando la commistione fra Sanità e Politica: quello stesso D’Alia che lo scorso anno minacciò la crisi di governo e indusse Crocetta e La Borsellino a revocare l’accordo con il gruppo Humanitas, con la solita procedura pasticciata bocciata dalla giustizia amministrativa.
Quel D’Alia che non aveva nessuna competenza in materia, se non la circostanza che, essendo la nascente clinica legata alla famiglia del deputato regionale Sammartino fuggito con Leanza per fondare Articolo 4, c’era il fondato rischio che i voti di tutta la comarca non andassero più all’UDC, come era successo alle regionali.
In questo contesto ai cittadini di Agrigento restano due alternative: o il voto alla marmellata del tutti dentro, o il voto ai “rivoluzionari” dell’Udc. Ci sarebbero tutte le condizioni per un successo a 5 stelle, se il movimento di Grillo non avesse perso, strada facendo, molto del suo appeal elettorale.
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