Durante il loro appassionante intervento, gli ospiti hanno parlato del loro amore per il nostro Paese (ci vivono rispettivamente da quattro e da dieci anni – sicché si esprimono perfettamente – e, per inciso, comprendono e appoggiano le civili lotte studentesche e le proteste del mondo dello spettacolo di questi giorni); dei maestri del Neorealismo (in testa il compianto Monicelli), le cui opere hanno insegnato loro tanto su storia, cultura e lingua italiane; della difficoltà, durante il regime di Saddam Hussein, di andare al cinema (molte le sale distrutte); della censura, i tagli e gli stravolgimenti di montaggio che venivano imposti alle opere straniere (non sottotitolate); dei controlli, preventivi e non, che ancor oggi deve affrontare la produzione di un lungometraggio (tranne in alcune aree), già messa in difficoltà, logistiche ma non solo, dalla mancanza di mezzi e, più in generale, di un’industria. Nel dettaglio (le riprese sono state effettuate nella parte iraniana settentrionale e relativamente più autonoma e tranquilla), perfino la divisa di scena di Zouaoui (che ha amaramente ammesso il suo disinformato sostegno giovanile al dittatore sopra citato) ha causato qualche problema: girare in territori che sono stati teatro di tanti conflitti e bombardamenti significa avere a che fare con persone che non sanno (o non ricordano) cos’è la settima arte, che hanno ferite ancora aperte, che non possono che allarmarsi alla vista di un militare del regime che perpetrò tante prepotenze; una volta convinti dell’importanza del progetto, però, gli abitanti di quelle zone (il casting, fra l’altro, si è rivelato imponente e veloce) hanno aiutato la troupe con tutto il cuore. I fiori di Kirkuk può vantare finanziamenti e maestranze nostrani, eppure è stato definito apolide (forse per via degli idiomi mediorientali dei dialoghi) e al festival di Roma non gli è stata riconosciuta la nazionalità. Kamkari, che con la sua opera ci tiene a sottolineare l’importanza delle donne e della loro intelligenza e sensibilità nella martoriata società islamica, spera comunque di riuscire a mostrare il proprio lavoro al suo popolo, che subisce pure un ulteriore isolamento a causa delle notizie a senso unico diffuse dai media locali.
Fariborz, come hai proposto questa tua suggestiva storia alla Medusa?
FK: “Medusa è solo il distributore; la casa di produzione è l’italiana Far Out Films, con la quale avevamo già fatto un film in Iraq, Il capitolo proibito. Stiamo seguendo insieme una linea per raccontare il mondo islamico e mediorientale da un punto di vista interno, però sempre servendoci di un linguaggio universale, perché riteniamo sia importante raccontare ciò che abbiamo vissuto laggiù.”
Per interpretare il tuo Mokhtar, Mohamed, hai pensato che fosse un uomo buono o cattivo?
MZ: “È una bella domanda, fondamentale! Il personaggio si mostra al pubblico come un cattivo: nella realtà storica, i giovani militari iracheni, quelli che si presentano con i gradi, come me, che faccio un tenente, sono i più crudeli. Mokhtar rappresenta dunque il male; tuttavia, è una vittima, in fondo non faceva parte di quest’ambiente, ci si è trovato, è stato costretto, avendo alle spalle un padre ufficiale, politicamente molto potente. Comunque, è un tipo di vita che gli interessa poco.”
Grazie al vostro angolo d’osservazione privilegiato, vi piacerebbe realizzare un film sull’immigrazione qui in Italia?
FK: “Assolutamente sì, in pratica è il mio prossimo progetto. Un omaggio al cinema italiano, una commedia su alcuni immigrati mussulmani. Cerchiamo di rompere qualche schema, di raccontarli in modo un po’ diverso, ancora dall’interno, allo scopo di illustrare l’Italia odierna attraverso la sguardo di uno straniero.”
MZ: “Senz’altro, mi piacerebbe moltissimo. Ho lavorato parecchio in Italia, in televisione, e mi sembra che abbiano un’idea sbagliata: all’immigrato toccano sempre due o tre cliché, la vittima o lo spacciatore… Ma esistono anche persone perbene, che vivono serene e felici, e questo non viene mai raccontato! Mi auguro di avere presto la possibilità di dimostrare che ci sono anche immigrati onesti in questo Paese!”
Massimo Arciresi
[fotografia: Angela Fanara]
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