Inciuria: marchio di fabbrica, epiteto o maledizione?

Chi è nato e cresciuto in città avrà più difficoltà a comprendere a pieno il significato del termine “’nciuria”. Eppure nelle realtà più piccole, dai paesi alle campagne, sin dai tempi antichi, l’inciuria è stata alle volte tanto importante quanto il vero nome.

Nei dialetti meridionali l’inciuria altro non è che un soprannome, affibbiato (spesso di generazione in generazione) sulla base di caratteristiche fisiche, mestieri, provenienza, difetti o identità caratteriali.

Un “made in sud” che non può certo vantare la marcatura CE, una parte essenziale del folklore siciliano e dei nostri molteplici dialetti ma soprattutto un’eredità lasciata da chi, prima di noi, usava descrivere i conoscenti enfatizzando particolari caratteristiche.

Inciuria: la pronipote dell’epiteto

Teresa Mannino, ormai celebre comica di origine palermitana, in un divertente sketch si definisce la pronipote di Medea in quanto siciliana e abitante di quella che fu la Magna Grecia. Allo stesso modo potremmo far risalire le origini delle nostre inciurie ai celebri epiteti tanto diffusi nell’epica omerica.

“Achille piè veloce”( Achille dal piede veloce”) o Pelide (epiteto legato al suo patronimico) o ancora Lorenzo il Magnifico, sono solo alcuni tra gli epiteti più famosi che sono giunti alle nostre orecchie negli anni investiti a scuola.

L’epiteto è per definizione “l’accostamento, generalmente al sostantivo, di un elemento che lo caratterizza”. Utilizzati a volte per facilitare la memorizzazione dei personaggi da parte del lettore e a volte per identificare una persona nella realtà.

Come Teresa Mannino nel caso di Medea, l’inciuria altro non è che la pronipote dell’epiteto.

Un nome diverso dal nome proprio che può diventare una condanna, poiché in alcuni casi assume il senso di un insulto o di una caratteristica raccapricciante del proprio aspetto fisico.

Edipo deve il suo nome ai piedi gonfi causati dal padre ma ci sono origini meno epiche e gloriose.

Gli innumerevoli esempi di inciuria

L’inciuria non risparmia nessuno: da “nascazza” se si ha la sfortuna di avere le narici pronunciate, a “capraru” se di mestiere si pascolano le pecore, da “credulone” se si è di carattere ingenuo e a “Janattinisi” se si proviene da Canicattini.

A volte soprannomi gloriosi, altre volte maledizioni che passano di generazione in generazione come se il fatto che il trisavolo vendesse il pesce rendesse la famiglia destinata alla vendita del pesce.

Verga, da buon siciliano, riempie i suoi testi di inciurie e attribuisce a “I Malavoglia” ,  seppur grandi lavoratori, l’ironica svogliatezza nel mestiere.

Nonostante le grandi città diventino sempre più grandi e i piccoli paesi sempre più piccoli, nonostante certe tradizioni siano sempre meno diffuse, non si deve pensare che peculiarità come l’inciuria andranno perse. L’inciuria sta solo cambiando forma, è diventata il soprannome antipatico dato al compagno di classe per gli abiti fuori moda che indossa, o l’appellativo al collega di ufficio che è sempre svogliato, o il nomignolo a quel parente col naso pronunciato o ancora la banale, insensata e spesso maligna, diversificazione tra “polentoni” e “terroni”.