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di redazione
Il generale Subranni, ex capo del Ros e tra i 12 imputati nell’inchiesta sul patto tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni, andava spesso a trovare i cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani politicamente uomini di Lima a Palermo e ad Andreotti a Roma, notoriamente vicini alla mafia. Lo ha dichiarato il pentito Francesco Di Carlo, lo scorso 12 settembre, ai pm palermitani che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Sostiene Di Carlo che i cugini Salvo chiedevano a Subranni l’intercessione per far chiudere le indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, per diretta volontà di Tano Badalamenti che comandava allora la famiglia mafiosa di Cinisi. In cambio del suo interessamento Subranni chiedeva aiuti per la sua carriera militare ai cugini Salvo che avevano amicizie molto importanti. Da questo intreccio è facile capire come era forte il rapporto tra la mafia e lo stato, fatto da reciproci interessi e complicità inattaccabili. Il pentito Di Carlo sostiene che anche Totò Riina, in un’occasione gli avrebbe parlato dei rapporti tra Badalamenti e Subranni, ha detto che il Capo dei Capi gli avrebbe confidato che il Colonnello non poteva essere ufficialmente affiliato alla mafia, con la tradizionale cerimonia della Punciuta, cioè l’immagine sacra bagnata dal sangue del nuovo mafioso e bruciata in mano in segno di fedeltà assoluta alla famiglia, perchè era un militare, ma che comunque Subranni, era uno a disposizione. Oltre alle dichiarazioni del pentito Di Carlo, i Pm che hanno riaperto l’indagine sull’omicidio Impastato, hanno ascoltato anche lo stesso generale Antonio Subranni, che naturalmente ha ribadito la correttezza del suo operato nella conduzione dell’inchiesta, dichiarazioni facilitate dal fatto che nessuno degli altri eventuali complici è più in vita da tempo.
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