Il caso Di Matteo: la giustizia, la trattativa e i ricorsi storici
Affrontare il caso Di Matteo in tutti suoi risvolti, è come lavorare ai fili dell’alta tensione senza che abbiano interrotto il passaggio di corrente.
Dentro c’è un condensato di tutte le criticità che riguardano le collusioni dello Stato, le distorsioni dell’apparato giudiziario, le tante zone d’ombra del rapporto mafia-antimafia, i cui contorni si mischiano rendendo impossibile capire dove finisca una e cominci l’altra.
L’ennesima bocciatura da parte del CSM della candidatura di Di Matteo alla Direzione Nazionale Antimafia ci pare l’occasione giusta per tentare una analisi basata sui fatti e non sui pregiudizi, anche se non si può prescindere dalle opinioni personali.
Partiamo dalle parole del Pubblico Ministero nell’intervista a Repubblica: “Tra i criteri del Csm continua a incidere pesantemente la logica dell’appartenenza correntizia. Il primo criterio è a quale corrente appartieni. E chi, come me e tanti altri, non appartiene a nessuna corrente, e anzi osa criticare la patologia del sistema, vede bocciata ogni aspirazione”.
Siamo perfettamente d’accordo con Di Matteo: la magistratura ha mutuato dalla politica il concetto di appartenenza, che lede pesantemente la terzietà del magistrato non solo giudicante, come è ovvio, ma anche inquirente visto che, per la nostra Costituzione, è tenuto a prendere in considerazione anche le prove a discarico dell’indagato.
Questa politicizzazione impropria fa sì che nell’assegnazione degli incarichi la scelta non cada sui più meritevoli e competenti, ma su chi fa parte della corrente “giusta” nella spartizione dei posti disponibili.
Se lo avessimo detto noi avremmo rischiato la querela e la “scomunica”, ma lo dice Di Matteo e noi ci limitiamo a sottoscrivere dalla prima all’ultima parola.
Insomma, se alla DNA occorrono magistrati che conoscono il fenomeno mafioso, Di Matteo non poteva essere escluso.
Ma c’è anche una spiegazione “dietrologica” dell’esclusione che riguarda il famoso processo sulla trattativa Stato-mafia (S maiuscola, m minuscola). A Di Matteo sarebbe stata fatta pagare la sua pervicace ricerca delle prove di una collusione fra apparati istituzionali e Cosa Nostra.
E’ una ipotesi che appare credibile anche in base ai corsi e ricorsi storici: senza voler fare paragoni fra le persone, ci sono molte analogie fra la bocciatura di Di Matteo e quella di Falcone come capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, che allora era il fulcro delle indagini antimafia.
E ci sono anche analogie fra il fallito attentato all’Addaura (di cui si insinuava fosse “autoprodotto”) e i 300 chili di esplosivo destinati a Di Matteo (che per qualcuno esistono solo nella mente di un pentito).
Allora come ora si usa il “mascariamento” e a livello istituzionale, si procede all’emarginazione: appare quindi probabile che dietro il siluramento di Di Matteo ci sia la reazione infastidita delle istituzioni coinvolte nel processo sulla trattativa.
Ma anche su questo processo una parola vogliamo dirla: che ci sia stata una trattativa fra Stato e mafia per interrompere la serie degli attentati che la mafia aveva attuato e programmato fuori dalla Sicilia è, non solo probabile, ma anche logico.
In tutte le parti del mondo esiste una zona grigia dove uomini delle istituzioni vengono a patti con i criminali, per acquisire notizie e garantire l’ordine pubblico. Per di più abbiamo anche l’oggetto della trattativa, ossia l’abolizione del regime del 41 bis decisa in solitudine, secondo le ricostruzioni processuali, dall’allora ministro della Giustizia Conso. Il quale era uno specchiato galantuomo, mai venuto in contatto con esponenti mafiosi; dunque l’ipotesi più verosimile è che sia stato spinto a questo passo da uomini delle istituzioni al più alto livello.
Del processo sulla trattativa non ci convince il ruolo preminente assegnato a Berlusconi e Dell’Utri da una parte e a Mannino dall’altra: se è vero che Berlusconi e Dell’Utri hanno avuto rapporti diretti e provati con i boss mafiosi, è altrettanto vero che, nel ’92, non erano in grado di garantire la contropartita richiesta dalla mafia, perché lontani politicamente dall’area di centrosinistra che occupava il Quirinale, Palazzo Chigi e tutti i ministeri.
Né possiamo immaginare alti ufficiali come Mori, De Donno e De Caprio agli ordini dei boss: almeno fino a quando non sarà provato che abbiano ricevuto regalie e favori personali dal rapporto con i boss.
La conclusione logica, senza conoscere i faldoni processuali o le segrete carte, è una sola: Mori e compagnia trattarono per conto dello Stato sia l’arresto di Riina, sia la mancata perquisizione del covo, con l’unico intento di ottenere lo stop alla strategia stragista del Capo dei Capi, evitando altre vittime innocenti.
Se questo sia reato non spetta a noi stabilirlo.