Un mix di burocrazia, ottusa applicazione delle norme e business dell’immigrazione: sono questi i motivi del calvario di una famiglia di Caltanissetta che è finita in un centro per immigrati. Non un albergo a tre stelle da rifiutare perché “fuori mano” come avvenuto a Corleone, ma una struttura fatiscente che era stata anche chiusa per problemi igienici.
La vicenda ha inizio trentanni fa quando Giovanni Musco, all’epoca impiegato postale, decide di acquistare delle quote sociali di una cooperativa, la Postelegrafonica, che riceve un finanziamento pubblico per la costruzione di 36 appartamenti a Caltanissetta, classificati come edilizia residenziale popolare. I soci di questa coop entrano in possesso della propria abitazione, assegnata tramite decreto dell’assessorato della Regione Siciliana, con formula proprietà divisa e mutuo frazionato in capo ai singoli. La famiglia Musco, nel 1992, corona il sogno di una vita: un tetto di proprietà. Pagano regolarmente mutuo e bollette e tutto sembra andare per il meglio.
Poi le difficoltà economiche, rate di mutuo non pagate e arriva lo sfratto, nonostante i Musco sostengano di aver pagato 60 degli 80 milioni dovuti. Nel giugno del 2013 inizia il loro lungo calvario. Un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa e armati, alle prime luci del mattino, fa irruzione in casa, per eseguire lo sfratto. Graziella, la figlia maggiore, s’incatena al balcone. La madre, gravemente malata, è a letto. Nessuno sa spiegare loro il perché di quest’azione forzata.
Fra disperazione e pianti, vengono cacciati dalla propria abitazione. La Prefettura di Caltanissetta decide di trovar loro una sistemazione «adeguata e rassicurante», così come è scritto nella lettera inviata al Presidente Napolitano che chiedeva notizie della vicenda.
Ed invece il nucleo familiare viene sistemato in un centro d’accoglienza e detenzione di immigrati: la «Casa Speranza» gestita da padre Alessandro Giambra, fino a qualche giorno prima chiusa perché non era in condizioni igienico sanitarie per ospitare persone. Condividono l’alloggio con una settantina di immigrati senegalesi.
“Non ho dormito per due mesi – dice il figlio minore, Marco Musco – per proteggere di notte i miei familiari, ho rischiato l’ictus. Siamo finiti in un luogo dove venivano detenuti afgani e nord africani. Spesso scoppiavano risse e avevo paura che finissimo coinvolti. È un miracolo se sono vivo».
“Immaginate che choc viviamo – aggiunge Graziella con le lacrime agli occhi – abbiamo perso la nostra dignità, il nostro punto di riferimento. Noi viviamo come deportati con una casa, la nostra, chiusa. Capite bene quanto sia folle questo provvedimento, quanto noi stiamo soffrendo, sapendo che, nel frattempo, dei ladri hanno svuotato casa: dai mobili ai vestiti. Non abbiamo più niente”.
Non solo ma, secondo la loro versione, i Musco non sono nemmeno graditi, perché non essendo immigrati per loro lo Stato non versa la retta giornaliera di 35 euro a persona.
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