I giovani che uccidono, proviamo a capire. Intervista al dott. Giovanni Del Missier
di Filippo Troiano
“Zone di disinteresse”
Nelle ultime settimane estive diversi tragici fatti di cronaca nera hanno riempito le pagine dei giornali. Stavolta a scuotere l’opinione pubblica è stato il fatto che a compiere i terribili gesti siano stati dei giovani uomini, addirittura adolescenti. Vengono alla mente i casi di Erika e Omar, quello di Garlasco. Ne abbiamo parlato con lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Del Missier, presidente della Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica di Roma.
Dottor Del Missier ci aiuti a capire… cosa porta un ragazzo a scagliarsi contro una giovane donna che non conosce, incontrata per caso per strada, ferendola a morte o un altro ad uccidere senza motivo l’intera famiglia?
“Innanzitutto chiariamoci: In entrambi i casi si può, anzi si deve, parlare di malattia mentale, di gravissima malattia mentale. Anche senza visitare il soggetto, atto fondamentale per ogni medico, in quanto la gravità e l’enormità del fatto comportamentale è di tale entità che non ci possono essere ipotesi causali alternative.
Un medico a cui si descriva che altrove un paziente è caduto improvvisamente a terra, perdendo coscienza, cominciando una crisi convulsiva con perdita delle urine e bava dalla bocca, ha l’obbligo di pensare ad una epilessia anche senza visitare il paziente. Qui è la stessa cosa.
Poi si potrà scendere nel dettaglio, studiare in modo approfondito i due casi ed evidenziare anche le differenze tra loro, che non sono di poco conto. E’ chiaro comunque che si tratta di due rotture psicotiche insorte in due personalità diverse e con storie diverse alle spalle in cui la violenza materiale rende palese e concreta una precedente, più o meno silenziosa, gravissima perdita, sia cognitiva che affettiva, del rapporto interumano (generalizzato a tutti per il trentenne Moussa, specifica nei confronti della famiglia per il diciasettenne Riccardo). E’ la perdita della naturale, originaria sensibilità umana che ci guida nel rapporto con gli altri e con se stessi e che ci dà il senso dei rapporti interumani. Essa viene sostituita dall’irruzione di un altro senso del tutto errato, alieno, disumano, ovvero, in tal caso accade che il senso della propria realizzazione starebbe nella eliminazione di altri esseri umani. Un “essere per la morte” psicologicamente molto “nazista”, come dire “io sarò se un altro morirà”.
Molti suoi colleghi anche di fama nazionale hanno usato parole terrificanti, c’è chi ha “invocato l’Onnipotente”, chi ha detto di una “fantasia di uccidere i genitori che si annida nella mente degli adolescenti e che poi sparisce”. Solamente Luigi Cancrini ha parlato di patologia augurandosi che il ragazzo venga curato. Ugualmente anche rispetto a ciò che solitamente i colleghi giornalisti scelgono di andare a cercare proponendo una informazione che confonde, terrorizza lei ed altri terapeuti in Italia avete invece un approccio molto preciso verso la diagnosi e conseguente prassi psicoterapeutica. Come mai è così difficile o addirittura impossibile nominare il termine “malattia mentale?”
“Escludere la malattia mentale in questi casi significherebbe avere un pensiero derivato da una visione antropologica aprioristicamente negativa dell’essere umano. Ovvero pensare che quello che la medicina e la psicologia nel corso dei secoli hanno sempre definito patologia sia un dato comune a tutti e che quindi vada accettata in quanto “umana”. Anzi, debba essere accettata. Altrimenti -guardate il perverso capovolgimento! – ad essere disumano sarebbe proprio chi rifiuta la patologia, magari cercando di capirne il senso per poi curarla. Negli anni ‘70, ’80 del secolo scorso la psichiatria venne linciata pubblicamente, da una certa cultura sedicente progressista e rivoluzionaria, in quanto cattivissima, violenta, repressiva in toto. Senza distinguere gli psichiatri che lo erano veramente da chi non lo era affatto, tra chi era solo un guardiano e chi invece cercava la terapia. Come Cancrini che appartiene a quella generazione di psichiatri che invece non volle abdicare alla propria identità terapeutica.
Ma, nella sua domanda, anche il riferimento ai mass media è opportuno, essi spesso veicolano una cultura sbagliata e pericola. Sbagliata, perché la malattia mentale esiste eccome. Lo sa bene l’industria farmaceutica; basta vedere qual è il fatturato degli psicofarmaci.
Pericolosa perché ignorare una malattia, così come per le malattie del corpo, significa lasciare al proprio destino chi sta male. E non proporre nessuna prevenzione per chi è a rischio. Anni fa (2001) il più originale e significativo esponente di quella generazione succitata di psichiatri che cercava una cura per la mente, Massimo Fagioli (1931-2017) ebbe a dire in una intervista televisiva che la malattia mentale è sì una tragedia, ma che una tragedia ancora maggiore sta nel pensiero che la malattia mentale non esista.
Affermare che gli autori di simili atti non sono malati di mente significa implicitamente proporre che delle persone sane di mente ucciderebbero tranquillamente una sconosciuta o la propria famiglia. E’ una contraddizione in termini; se sei sano non sei violento, se sei violento sei malato. E non ci si nasconda dietro le affermazioni che parlano di premeditazione o di capacità di intendere e di volere, tipiche caratteristiche ovviamente dei delinquenti ma che possono benissimo convivere anche nella malattia mentale. Perché premeditare, programmare, prevedere sono requisiti della razionalità cosciente e questa non è necessariamente alterata nel malato di mente, in cui invece ciò che è alterato è il senso profondo del rapporto interumano, che è innanzitutto non cosciente. E può lasciare intatto il rapporto con la realtà materiale. E’ quel distacco profondo dagli altri esseri umani, che Fagioli definì annullamento nel 1972”.
Da ciò che hanno dichiarato la sorella e la madre del giovane assassino di Sharon sembra che avessero segnalato diverse volte le sue violenze e la sua pericolosità così come sembra da alcune testimonianze sull’altro giovane che qualcosa di “strano” venisse percepito da amici o conoscenti; e le ripropongo la domanda: Come mai è così difficile o addirittura impossibile intervenire e intercettare una pericolosità?
“Questa domanda sulle richieste di aiuto inevase per una sorta di impotenza istituzionale sembra portarci verso il tema della prassi e quindi lontano dai discorsi precedenti apparentemente teorici.
Invece no! Tale impotenza è anch’essa frutto della stessa cultura che non vuol tener conto del senso umano, non sa cercare il senso al di là del comportamento e della verbalizzazione. E’ la cultura del fare, contano solo i fatti, come se per valutare la pericolosità e la violenza contassero solo i fatti. E nel caso di Moussa molti, giustamente, si indignano perché i fatti c’erano eccome (incendi procurati, minacce col coltello etc,) e pure le denunce. In tal caso è ipotizzabile una sorta di omissione delle istituzioni, grave come quella che rende inascoltate le denunce presentate dalle donne prima del tragico epilogo in femminicidio.
Molto più delicato, complicato, difficile è il caso di Riccardo perché qui i fatti eclatanti e manifesti non c’erano. Quindi tutto era lasciato a quella sensibilità profonda capace di percepire quel “qualcosa di strano” al di là dei fatti penalmente rilevanti, un certo modo di vivere i rapporti interumani anche non manifestamente violento, un modo intriso di assenza, di lontananza, di emarginazione autoindotta; atteggiamenti più che comportamenti che avrebbero meritato l’attenzione degli altri e prima ancora quella di Riccardo verso se stesso per cercare magari un aiuto esterno”.
Torna alla mente il film “La zona d’interesse” di Jonathan Glaser (tratto dall’omonimo romanzo di M. Amis e vincitore a Cannes del Gran premio della giuria e di due premi Oscar). Dietro al muro dell’apparente normalità di una famiglia felice si nascondeva l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Nessun cedimento, nè una crepa, nulla nella loro esistenza poteva essere messo in crisi, gli unici a non dormire, a stare male erano i bambini più piccoli. Dottor Del Missier, siamo come Rudolf Höß? Lei da tempo con la sua cooperativa si occupa di attività di prevenzione nelle scuole… cosa si può fare per i ragazzi per aiutarli ad opporsi a questo modo di pensare, a questa “normalità assassina”?
“Il riferimento al film di Glaser è molto appropriato in quanto esso ci mostra in modo chiaro ed evidente quanto detto sopra a proposito della assenza di sensibilità interumana. Con una scelta artistica sopraffina il regista non ci mostra la violenza materiale corporea terribile dello sterminio ma un’altra violenza forse più terribile ancora perché invisibile, quella che lei cita come “normalità assassina” che fu il titolo di una intervista televisiva rilasciata nel 2001 da Massimo Fagioli proprio su questo tema.
Mi permetta però di cambiare i termini della sua domanda, lei dice “dietro al muro dell’apparente normalità… si nascondeva l’orrore…..” e se fosse il contrario? ovvero che dietro al muro dell’orrore dei campi di sterminio si nascondeva l’apparente normalità di una famiglia felice? Detto altrimenti che la violenza esplicita e disumana nasce a posteriori da un precedente humus antropologico in cui la disumanità non si manifesta ancora in violenza materiale, ma si esprime in una profonda assenza di sensibilità interumana, in una piatta esibizione di affettività e di interessi culturali superficiali e senza senso, che coprono un vuoto spaventoso e disumano. Io direi perciò che è l’assenza che genera la violenza e non viceversa”.
“Infine la prevenzione, qui il discorso rischia di farsi aspro e polemico perché l’obiettivo della prevenzione rivolta ovviamente ai giovani si allaccia necessariamente in tal caso al tema della formazione degli insegnanti ovvero il tema è “ come si diventa adulti” e questo vale per gli uni come per gli altri. Allora azzardiamo un paragone tra le malattie del corpo e quelle della psiche e rileviamo che mentre in medicina siamo arrivati al concetto di immunizzazione ovvero alla possibilità di potenziare le difese naturali verso gli agenti patogeni mettendo artificialmente in contatto il fattore nocivo con il sistema immunitario del soggetto affinché esso prima conosca l’agente aggressiva e lo riconosca poi per potersene difendere, questo non è ancora accaduto in psicologia”.
Ci si limita a dare buoni consigli ovvi e inutili “siate buoni” “rispettatevi” “non fatevi del male” (sarà l’educazione affettiva?) penso invece che, per potenziare le nostre naturali difese verso la malattia psichica cioè quell’istintiva allerta e/o rifiuto di fronte ad una aggressione psichica da qualunque parte provenga e che ci vuole rendere sofferenti e magari anche malati, bisogna conoscere e sapere di questa violenza psichica cioè invisibile che a volte scatta in rapporti interumani difficili. Un tempo le favole ci aiutavano in questo, facevano sapere ai bambini che in verità esistono eccome! la rabbia dell’orco e l’odio della strega, ma che queste non sono onnipotenti e si possono anche battere”.
“E per gli adulti? per loro gli orchi e le streghe stanno nella cultura detta patriarcale, o meglio maschilista, che essi rischiano di accettare passivamente e quindi di propagare, contagiando gli altri. Quella cultura che fonda l’identità umana solamente sulla razionalità, sull’oggettività, sui fatti, sulla coscienza sacrificando l’irrazionale, la soggettività, le intenzioni, l’inconscio e così, ignorando questa altra metà della identità umana, si è privata della possibilità di distinguere in essa tra la stranezza folle di un’artista creativo e la stranezza pazza di un malato distruttivo. Esse sono indistinguibili dalla ragione cosciente ma solo intuibili dalla fisiologica sensibilità interumana che va, appunto, sviluppata e resa certa di sé”.