E’ difficile entrare nell’ottica e nella perversa e disfattista logica di chi, con pretestuose argomentazioni che non hanno fondamento, ma supportate da pregiudizi ideologici di basso profilo, ha attaccato Marchionne per aver pilotato le decisioni del CDA del gruppo Chrysler-Fiat inducendolo a deliberare una profonda riorganizzazione dell’Azienda. Il gruppo si chiamerà FCA (acronimo di Fiat-Chyster-Automobiles) con sede legale ad Amsterdam, sede fiscale a Londra e quotazioni nella borsa di New York per un agevole reperimento di capitali sul mercato americano. Quanto è accaduto, per chi conosce la tempra caratteriale di Marchionne, la sua determinazione di manager di altissimo spessore e la sua impostazione culturale sul piano industriale, non poteva non prevedere che quanto è successo era ampiamente scontato perchè funge da “barriera protettiva” per l’efficienza e la vitalità del nuovo gruppo. Con la fusione Fiat Chrysler, come costruttori di automobili, si collocano al settimo posto nella graduatoria mondiale, e quindi nella rosa delle dieci case automobilistiche delle quali è prevista la sopravvivenza nel mercato globalizzato.
Forse per l’immaginario collettivo l’operazione ha avuto un impatto infelice se non demolitorio delle residue speranze di vedere la Fiat, nel contesto dell’operazione, più valorizata e meno penalizzata. Marchionne e il presidente John Elkann, sensibilizzati dalle preoccupazioni dell’opinione pubblica, si sono attivati con dichiarazioni ufficiali sul normale prosieguo della produzione degli stabilimenti Fiat Italiani. Fatto salvi i diritti di tutti di esternare liberamente critiche e consensi entro limiti civili e tollerabili, c’è da farsi un esame di coscienza e da chiedersi: Sergio Marchionne, che è stato l’ideatore, il regista e il realizzatore della fusione fra i due gruppi, ed è anche italiano, perchè ha portato l’operatività amministrativa del gruppo fuori dall’Italia ?
Ed a questa prima e importantissima fase è possibile che possa seguire quella più disastrosa e penalizzante che è la dismissione degli stabilimenti produttivi ? Possibilità come questa, per Marchionne che ha una “cultura d’impresa” di notevole spessore che contempla l’assoluto pragmatismo per il conseguimento di “utili aziendali” al di là dell’idealismo utopistico, è da mettere in conto e costituisce minaccia incombente che non va nè sottovalutata, nè esclusa del tutto. Non è un mistero, ed è noto a tutti, che nel nostro Paese la delocalizzazione delle imprese per l’altissimo costo del lavoro, dell’energia, della pressione fiscale, della esasperante burocrazia e del frontismo sindacale, è una pratica già messa in atto da tante aziende con conseguente emorragia di posti di lavoro stabili. Se a questo sfacelo si aggiunge, poi, la instabilità politica, anche un buon italiano, come Marchionne, in deroga ai sentimentalismi, si vede costretto, suo malgrado, alla scelta di opzioni compatibili con la sua voglia e capacità di fare impresa.
La fusione Fiat-Chrysler, e le scelte fatte da Marchionne per proteggere l’attività del Gruppo, sono la “cartina di tornasole” del mancato ammodernamento del nostro paese per adeguarlo, per quanto possibile, alla competitività dei mercati, ed al loro continuo e inarrestabile processo evolutivo.
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