“Fine pasto”, la sacralità del cibo contro l’aristocrazia mediatica degli chef

L’antropologo Vito Teti, autore del volume “Fine pasto. Il cibo che verrà” invita a riscoprire il senso della convivialità, e a combattere speculazioni, sprechi e disuguaglianze. “In Italia non si mangia male, ma non tutti sanno quello che mangiano”

Parla di ‘Repubblica degli chef’, e non di dittatura, perché in realtà le star dei fornelli hanno molto consenso, apparentemente spontaneo.  I guru da quattro stelle, tre forchette e due berretti, che imperversano ormai a tutte le ore su canali generalisti e a pagamento, avverte Vito Teti, docente di Antropologia all’Università della Calabria e autore del volume “Fine pasto. Il cibo che verrà” (Einaudi 2015), non potrebbero infatti avere il seguito che hanno se non fossero sorretti da media, industrie alimentari: “Intorno al cibo parlato, più che al cibo mangiato – osserva -, ci sono interessi tali rispetto ai quali i masterchef  sono soltanto la punta d’iceberg di una congerie di gruppi sociali, economici, culturali che speculano su questo bisogno primario alterandolo in bisogno derivato. Da casa, possiamo assistere allo spettacolo comodamente seduti sul divano, ma non partecipiamo realmente, non capiamo il sapore di ciò che viene cucinato, non sappiamo niente sulla provenienza delle materie: insomma, tutto ciò che va in scena non è altro che un ‘metadiscorso’ intorno al cibo e questo rende la Repubblica degli chef uno stato dove manca la democrazia”.

“L’Italia – ammette il professor Teti, che è intervenuto a un seminario dal titolo “Cibo, cultura e comunicazione” organizzato dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, nell’ambito del ciclo di incontri sociologici “Leggere (le) mutazioni”  – è comunque un Paese dove si parla tantissimo di cibo e dove, per fortuna, non si mangia male: ma non tutti mangiano allo stesso modo, non tutti sanno da dove arriva il cibo e quanto costa produrlo e, di conseguenza, non tutti siamo coscienti di ciò che mettiamo in bocca”. In altre parole, ha scritto Teti, ”i cibi esibiti, maneggiati dalla dieta mediatica sono merce che non fa riferimento alla produzione. Un tempo si rubava e si apprendeva con gli occhi, adesso lo spettacolo del cibo non crea, purtroppo, adeguata consapevolezza”.

Lo si percepisce ancora meglio a livello globale: “Da un lato – insiste Teti – abbiamo ancora, purtroppo,  una pletora di ‘pance vuote’, tantissimi che muoiono di fame e di sete in molti Paesi. Dall’altro pochi, sebbene non pochissimi, che registrano un eccesso di consumo alimentare: potremmo definire il mondo occidentale come una società ortoressica, che dedica una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche, perché di fatto rischia di morire per abbondanza, mentre fino a non molti decenni fa, tentava di non morire di fame”.

Tanti anni fa, quando anche nel nostro Paese c’era penuria, vigeva però un senso della ritualità del mangiare legato al rapporto che l’uomo aveva con la natura, con la produzione, con il cibo stesso. “Nelle società tradizionali – spiega -, il cibo non era solo un fatto alimentare, mangiare era qualcosa di sacrale: era una condizione di sopravvivenza ma al tempo stesso diveniva un simbolo, inserito in consolidati tragitti rituali: pensiamo al cibo della festa, ai dolci del periodo pasquale, trascendendo fino a un rapporto con la divinità e con i defunti”. C’era, insomma, un altro genere di spettacolo del cibo: i piatti, le tavolate, la fattura del pane, la forma di un dolce, avevano anche una propria valenza estetica che conserva anche oggi tutto il suo fascino. Ritualità che, secondo Teti, si è quasi del tutto persa a vantaggio di una “spettacolarizzazione che in qualche modo ci fa dimenticare che esiste un rapporto intimo con ciò che portiamo alla bocca. Il cibo prima era esso stesso gusto e comunicazione, cerimoniere che ‘collega e non separa’, che esprime natura e cultura”. Ed ecco chiuso il cerchio tracciato dal titolo del seminario.

L’estremo opposto, forse, è quello del fast food, rispetto al quale però, secondo lo studioso, la nostra società mostra segni di riscatto. “La rapidità del mangiare esisteva anche prima, ma era legata alla scarsezza del vitto. Nella società dell’abbondanza è piuttosto dovuta a una perdita di rapporto con il tempo: si pensi – suggerisce il docente – al frainteso mito della velocità descritto da Jean Baudrillard, secondo il quale nella società americana la gente arriva a consumare il pasto come una primitiva tribù post moderna. Ma il fast food denota l’ aspirazione di una società che si è immaginata moderna, che ha creduto di avere risolto i problemi della fame e che adesso sta invece cominciando a ripensare se stessa. Le persone, alcune persone, iniziando a chiedersi ‘io cosa mangio’, ‘è veramente necessario consumare il cibo in maniera così veloce senza che io abbia un rapporto con il mondo della produzione’? Quella che sembrava ormai una battaglia persa nei confronti delle multinazionali degli hamburger, sta insomma pian piano diventando un fronte che si riapre”.

Tra l’incudine degli ‘stellati’ e il martello dei McMenu, come recupereremo allora la sacralità del cibo? Dobbiamo, paradossalmente, ritornare di nuovo poveri per apprezzare il tozzo di pane duro? “Niente di tutto questo – rassicura il professor Teti –. Il poeta e patriota calabrese Vincenzo Padula affermava che la poesia è sorella della miseria; la miseria deve scomparire, ma la poesia rimanere. E invece, assieme alla miseria, noi abbiamo perso anche la poesia”. La ricetta che ne scaturisce è suggestiva a declamarsi, ma tanto è bastato perché l’autore di “Fine pasto” fosse tacciato di ‘nostalgia restauratrice’ o, almeno, di sospetta vicinanza ideologica con le correnti Slow Food o della decrescita felice di Serge Latouche.

Teti, però, tira dritto: “Dobbiamo recuperare la bellezza e la poesia di ciò che abbiamo, anche del poco che abbiamo; riscoprire il senso della convivialità, dello stare assieme, anche per riempire il nostro tempo e le nostre relazioni. Esercitare a frugalità, la sobrietà, la moderazione, capendo che ciò che arriva nel nostro piatto è frutto di processi produttivi, di lavoro, di fatica”.

“Vedo tante persone che tornano ad incontrarsi per pranzare o cenare assieme – prosegue -, che vanno nei paesi abbandonati per mangiare vicino ai propri defunti: mi sembrano forme di ritorno o di resistenze che ci rivelano che l’omologazione e la standardizzazione culturale che sembravano aver trionfato, in realtà non sono del tutto passate. Aspettare di tornare alla fame, quindi, non è certamente lo stimolo auspicabile: potremmo però autoregolamentarci, capire che l’equilibrio attuale non regge, la ricchezza è distribuita in maniera molto irregolare e ingiusta, e provare a rinunciare a una parte del nostro ‘troppo’”.

Questo compito, più che alla televisione, spetterebbe alle scuole, anche perché – constata Teti – le famiglie spesso fanno un buco nell’acqua. “E’ nelle aule che bisognerebbe far conoscere ai ragazzi il percorso del cibo, cosa costa produrlo, far riemergere il vecchio rapporto che l’uomo aveva con la natura e la produzione. E soprattutto quali rischi e quali risvolti morali comporta sprecare il cibo in eccesso.  E’ questa la vera comunicazione sul cibo”. E i mass media possono mantenere un ruolo? “Certamente: ma io sono per incoraggiare programmi di qualità che informino correttamente e trasmettano i giusti messaggi, opponendosi a questa aristocrazia urlata degli chef e all’ossessione del mangiare ad ogni costo”.

 

Ma.C.