VENEZIA (ITALPRESS) – “Non è detto che tutto quello che vediamo nel film è realmente successo, ma è del tutto autentico nel riflettere quello che ho veramente provato in quel periodo del passato”: è con queste parole che Paolo Sorrentino risolve il nodo dell’autobiografismo e della finzione che lega e tiene unito “E’ stata la mano di Dio”, il suo nuovo film in concorso a Venezia 78, produzione Netflix (in streaming da metà dicembre, dopo un passaggio in sala dal 24 novembre) che è stata accolta al Lido con applausi e consensi pressoché unanimi. Per quanto le note stampa annunciassero un film autobiografico, non era facile aspettarsi da un regista così virtuosistico come Sorrentino un film tanto limpido, immediato, sincero: l’amarcord che nutre non è quello invischiato in una memorialistica felliniana trasognata e astratta, ma tende a un contatto autentico con le sue esperienze adolescenziali, nutrite dal mito di Maradona e dettate dal dramma reale che ha segnato la sua vita, quando i suoi genitori morirono per un incidente e lo lasciarono solo con la fine della sua infanzia.
L’arrivo di Maradona al Napoli è il sogno proibito che Fabietto coltiva nella sua solitudine da adolescente un po’ separato e sognante, senza amici ma immerso in una famiglia ampia e colorata, il cui ritratto offre al film la sua tessitura umanistica e da commedia: il padre bancario (Toni Servillo), la madre casalinga (una sempre bravissima Teresa Saponangelo), un fratello con sogni d’attore e una sorella sempre chiusa nel bagno offrono al ragazzino uno spettacolo quotidiano di affettuosità, allegria, problemi, litigi che si riflette nel coro multicolore offerto dagli zii, dalle zie, dai vicini. Paolo Sorrentino descrive questo mondo con una libertà e sincerità del tutto inedita al suo cinema, in genere teso verso simbolismi ed elaborazioni stilistiche più barocche: “E’ stata la mano di Dio” è invece un film che respira con i suoi personaggi e offre un sentimento autentico della vita, inscritto nel percorso doloroso che porta un adolescente a farsi carico di se stesso e intraprendere la strada del cinema. Il tema della finzione e della verità è del resto molto importante nel film, proprio perché segna il discrimine tra ciò che accade e ciò che si desidera accada, un po’ come il famoso gesto sportivo di Maradona che aveva scavalcato la norma del regolamento nel segno di un bisogno di affermazione più forte della realtà stessa.
È in questa tensione che Sorrentino trova la chiave stilistica e narrativa: “La principale differenza tra questo film e gli altri che ho fatto” dice giustamente il regista, “sta nel rapporto tra verità e bugie: se gli altri miei film si alimentano di falsità nella speranza di individuare un barlume di verità, questo parte da sentimenti reali che sono poi stati adattati alla forma cinematografica”. E allora il susseguirsi di episodi familiari, l’attrazione per la bellezza delle forme femminili, l’incipit affidato alla fantasia alterata della zia che incontra San Gennaro a una fermata del bus, gli scherzi della madre, la figura della contessa del piano di sopra, tutto questo contribuisce a definire il portato umano di un film che sa essere sincero e autentico nella misura in cui riscrive la fantasia con la quale è stato incamerato nella propria coscienza dal regista. E poi c’è l’omaggio ampio e consapevole a un altro grande autore partenopeo, quell’Antonio Capuano grazie al quale effettivamente Sorrentino è entrato nel mondo del cinema, scrivendo assieme a lui “Polvere di Napoli. Oltre a Toni Servillo e Teresa Saponangelo, il cast punta tutto sulla presenza immediata e ragionata del giovane Filippo Scotti nel ruolo di Fabietto. A lui si affiancano Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Enzo Decaro, Luisa Ranieri.
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