Pietro Ichino.
La riforma costituzionale di cui l’Italia ha urgente necessità, per tornare ad avere una politica nazionale concludente, non potrà mai essere compiuta da un partito solo. Neppure dal PD uscito stravincente alle prossime elezioni che Matteo Renzi alla Leopolda ha reso credibile ai suoi sostenitori. E neppure la riforma elettorale.
Esse costituiscono il capitolo programmatico principale del Governo Letta: possono e devono essere compiute in questa legislatura dalla sua maggioranza bi-partisan. La riforma costituzionale – che pure è partita con il piede giusto, sotto la guida intelligente e competente di Gaetano Quagliariello – difficilmente potrà arrivare in porto prima della fine del prossimo anno. Ma se Matteo Renzi continua a sparare a zero sulle “larghe intese” il Governo cadrà, il Parlamento dovrà essere sciolto e non ci sarà il tempo per compiere quella riforma. Così la politica nazionale resterà inconcludente come lo è ora; e l’unico a trarne profitto sarà Beppe Grillo. Proprio i bipolaristi più seri e convinti sanno qual è il momento in cui occorre un forte impegno bi-partisan, per tirare fuori il Paese dalle secche e ricreare le condizioni dell’alternanza. Qui la fretta rischia di essere cattiva consigliera per il sindaco di Firenze.
Proprio in queste settimane stiamo assistendo a un fenomeno politico impressionante: l’ala sinistra del PD e l’ala destra del PdL, in stretta alleanza tra loro, si sono adoperate alla Camera per ripristinare i contenuti deteriori originari del decreto-legge 101 sulle cosiddette “stabilizzazioni” nelle amministrazioni pubbliche, riuscendoci in parte.
La stessa “tenaglia”, impersonata alla Camera dal tandem Cesare Damiano-Renata Polverini, sta operando in questi mesi per tornare indietro rispetto alla riforma delle pensioni compiuta da Monti e Fornero nel dicembre 2011. Questo significa che non soltanto una parte cospicua del centrodestra, ma anche una parte cospicua del centrosinistra ha quanto meno le idee pochissimo chiare (a voler essere benevoli) sui termini inderogabili della strategia europea dell’Italia.
Significa dunque che se Matteo Renzi sacrifica sull’altare della recuperata “identità del PD” la capacità di presa che ha avuto fino al novembre scorso sull’elettorato europeista di centrodestra, egli rischia di non essere poi in grado di attuare in modo coerente ed efficace quella strategia. In altre parole: riduciamo pure le larghe intese (che del resto proprio in questi giorni mostrano di essersi già notevolmente ridotte), ma non riduciamole troppo, se non vogliamo perdere risorse politiche che saranno indispensabili anche nella prossima legislatura per la riforma europea dell’Italia.
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