Diciassette anni al gioielliere che insegue e uccide i ladri. Omicidio o legittima difesa?

 

Secondo una delle più elementari regole del bon ton dei giuristi non è elegante commentare una sentenza se prima non se ne conoscono le motivazioni. Non vogliamo derogare a questa norma, che dovrebbe anzi suggerire maggiore prudenza proprio a quanti si scompongono “a caldo” contro le decisioni delle corti tutte le volte in cui esse non piacciono o sono diverse da come si attendevano. Però è un fatto che quei diciassette anni – tre in più di quelli chiesti dalla Procura – inflitti a Mario Roggero, il gioielliere che ha sparato ai tre rapinatori, uccidendone due e ferendone un terzo, hanno sortito un effetto curioso nell’opinione pubblica: l’hanno massicciamente sospinta dalla parte dell’imputato, considerato un omicida dalla corte d’assise di Asti e una vittima non soltanto da una fetta consistente del popolo italiano (difficile stabilire le proporzioni: tutto lascia pensare che si tratta di una moltitudine cospicua), ma anche da alcune personalità istituzionali.

Si scatenano quindi le masse: cinquecentomila euro di risarcimento del danno ai familiari dei rapinatori? L’interrogativo contiene in sè l’implicita disapprovazione popolare del verdetto che, come tutti, è pronunciato “in nome del Popolo italiano”. Se a questo sommiamo le diffuse, trasversali manifestazioni di solidarietà ci rendiamo conto che le (intuitive) ragioni tecniche poste alla base della sentenza astigiana non sono state per nulla condivise da una rilevante quantità di consociati, cioè di quello stesso popolo in nome del quale la sentenza è stata emessa. Hai voglia a dire che la legittima difesa non ricorre se insegui chi ha già finito di metterti in pericolo, oppure che non puoi sparargli alle spalle mentre sta scappando.

Che il bene giuridico “vita” vale più di quello “patrimonio”. Nulla da fare: nonostante questi argomenti – che probabilmente ritroveremo tra le pagine della motivazione della sentenza di condanna – il popolo continua a storcere il naso: nella migliore delle ipotesi, la pena determinata della corte d’assise è stata troppo severa. A difendere i giudici e la loro sentenza s’è paradosslamente dovuta impegnare la Camera Penale di Asti “Vittorio Chiusano”, un’associazione che raggruppa avvocati penalisti, ma l’invito a riflettere bene prima di esprimere giudizi affrettati non è riuscito a frenare il fiume delle esternazioni. Vittima o giustiziere? 17 anni di carcere per avere reagito ad una rapina a mano armata sono davvero troppi? Sei o sette non erano sufficienti? E su questi interrogativi montano le polemiche con una varietà di toni e di accenti per tutti i gusti.

Per fare risaltare l’anomalia della decisione c’è perfino chi si è impegnato a dimostrare che, ad esempio, la morte “bianca” di un lavoratore viene indennizzata con cifre di gran lunga inferiori di quelle riconosciute a chi ha perso la vita mentre commetteva un grave reato. Frattanto il gioielliere condannato – che ha espresso sin da subito il proprio disappunto per il verdetto – ha avviato una raccolta fondi per raggranellare i quasi cinquecentomila euro che dovrà versare ai congiunti dei rapinatori (ai quali, secondo alcune cronache, ne avrebbe già corrisposto altri trecentomila). La causale che dovranno inserire tutti coloro i quali vorranno aderire alla colletta è un’aperta dichiarazione di sostegno all’imputato e non alle vittime della sua reazione: “io sto con mario roggero”. Omicidio volontario, quindi, e non legittima difesa.

Questa l’opinione della corte d’assise che nella sua composizione è a maggioranza “laica”: sei giudici popolari e due giudici togati. Due tecnici del diritto e sei cittadini comuni, tratti a sorte da apposite liste. Cosa avrà determinato il collegio a non accogliere la tesi difensiva della legittima difesa, anche putativa (cioè ritenuta sussistente per errore), che avrebbe comportato una consistente riduzione della pena? Ciò che avviene nella camera di consiglio è coperto da rigoroso segreto: nessuno può sapere, tranne coloro che erano presenti e che non possono lasciarsi scappare nemmeno una parola, come è andata la discussione tra giurati e giudici di carriera. Se vi sono state scaramucce o accesi contrasti prima di addivenire ad un risultato. E chi crede nella statistica o nelle leggi matematiche che governano le proporzioni resterà per sempre col dubbio che l’espressione popolare della corte non abbia convinto la componente “tecnica” a superare le rigide regole del diritto. O forse no.

Chissà cosa succederà quando la sentenza di primo grado sarà sottoposta all’esame di una corte d’assise di appello a composizione mista come la precedente, quindi esposta anche alle sensibilità delle persone comuni, digiune di diritto e lontane dai suoi tecnicismi. Inutile fare previsioni, che sarebbero allo stesso tempo sbagliate per principio e azzardate nel loro contenuto, ma è interessante riflettere su un dato: l’anima della giustizia è veramente in pace soltanto se la decisione di un giudice è – non diciamo accettata – ma quantomeno “capita” soprattutto dal suo destinatario.

Questa è, intendiamoci, una situazione ideale. E come tutte le situazioni ideali appartiene soltanto al mondo dell’utopia. O della fantasia, che è un pò la stessa cosa.