Filippo Trojano intervista Giovanni Del Missier, psichiatra psicoterapeuta, presidente della Cooperativa sociale di psicoterapia medica in Roma.
Di fronte all’ennesimo terribile caso di cronaca che ha visto una madre abbandonare in casa la figlia di un anno e mezzo, l’opinione pubblica si scatena prendendo posizioni diverse. Da un lato idee millenarie di un male radicale insito nell’essere umano che potrebbe scatenarsi all’improvviso in ognuno di noi, dall’altro chi responsabilizza le istituzioni evidenziando le carenze in ambito di salute di base.
Ma sembra mancare ancora una chiarezza di fondo che permetta di identificare il problema senza cadere in quella morale che può solo condurre ad un giudizio di condanna o assoluzione, per arrivare a quella famosa prevenzione che anche in questo caso sarebbe necessaria.
L’unica via possibile sembra essere quella della vera ricerca medica, perché di fronte ad una problematica il medico dovrebbe essere in grado di sospendere un giudizio per affrontare la patologia e curare.
Abbiamo chiesto un parere al dott. Del Missier per provare a fare chiarezza.
È possibile parlare di malattia in questo recente caso?
“Innanzitutto, la usuale ma doverosa premessa: si esprimono pensieri e opinioni basandosi non su una conoscenza diretta ma su quanto riferiscono i media, ovvero gli avvenimenti sono lo spunto per riflessioni di carattere generale e non sullo specifico caso.
Ciò detto, sono rimasto allibito quando ho letto che il pm non avrebbe ritenuto necessario richiedere una perizia psichiatrica in quanto tale madre, accusata di omicidio volontario nella forma omissiva aggravato dai futili motivi, è apparsa lucida nella ricostruzione dei fatti, si è dimostrata collaborativa, non ha mai pianto, né perso il controllo; lasciando semmai alla futura difesa l’opzione di tale richiesta.
Non è evidentemente nella cultura giuridica ma forse, addirittura, neanche nella cultura dominante, cioè “basic”, l’idea che una persona, lucida cosciente consapevole e collaborativa possa avere invece una grave alterazione mentale.
Ma io mi chiedo: come si può anche solo per un attimo ipotizzare che una persona, e non parlo neanche di una madre ma di una persona qualsiasi, possa volontariamente e coscientemente far morire una bimba di 18 mesi? Ed essere considerato sano di mente!?
La frase “sapevo che finiva così”, detta agli inquirenti, dovrebbe venire intesa, correttamente da uno psicoterapeuta ma, forse, anche da chiunque abbia una certa sensibilità umana, equivalente a “volevo che finisse così”.
Quindi, certo che si può e si deve parlare di malattia ma chiariamo, per favore, parliamo di malattia mentale e non di malattia cerebrale, la neurologia non c’entra niente, il sistema nervoso è presumibilmente sanissimo e pertanto qualunque indagine di carattere biologico risulterà negativa”.
Allora di cosa parliamo quando si dice “malattia mentale”?
“Molto schematicamente e sinteticamente, per mente intendiamo quell’insieme di affetti e pensieri, ovvero sensazioni e idee, che nascono, vivono e muoiono, sarebbe più scientifico dire: si creano, si mantengono e spariscono, nell’ambito dei rapporti interumani e pertanto essa è una mente “relazionale”, ancor meglio definibile come la Psiche. E quando questa mente si ammala il risultato finale sarà in ogni caso la distruzione di sé stessi e/o degli altri. Distruzione per una aggressività diretta verso sé stessi e/o verso i nostri simili. Aggressività e distruzione che, a volte, possono coinvolgere la realtà materiale, come in questo caso, ma sempre comunque riguardano la realtà psichica, anche se il rapporto con la realtà materiale (dei corpi e delle cose) è mantenuto ad alta efficienza”.
Perché si fa ancora così fatica ad accettare che la psiche si possa ammalare?
“Allorché si intenda per Psiche questa mente specificatamente umana e non il semplice funzionamento della materia cerebrale deputato al mantenimento (sopravvivenza) dell’individuo e della specie, che per inciso condividiamo col resto della natura vivente, allora bisogna attribuire ad essa le due caratteristiche squisitamente umane che ci differenziano dagli altri viventi: la fantasia e la pazzia. Queste due possibilità corrispondono ovviamente al migliore e al peggiore funzionamento psichico, in altre parole al massimo dell’identità umana da un lato e dall’altro alla perdita di tale umanità (disumanità). Ribadiamo esse sono specificatamente umane: gli animali non hanno la genialità creativa ma neanche conoscono la malattia psichica.
Per accettare che la psiche si possa ammalare (così come, all’opposto, che essa possa creare quello che prima non esisteva) bisogna profondamente non essere credenti nel trascendente, altrimenti la psiche assume immediatamente connotati religiosi, ovvero diventa l’Anima, che notoriamente discende da questo trascendente (Dio) e che quindi non può ammalarsi o alterarsi, in tal caso la malattia può essere attribuita solo alla materia, al corpo, questo sì mortale.
Secondo questo pensiero, quindi, se si è geniali e creativi, il merito sarebbe di un intervento divino che ha illuminato un’anima bella e ricordiamo che solo una divinità può essere un creatore, non l’uomo. Invece, se si è pazzi la colpa è del corpo che si è lasciato indemoniare o, più laicamente, ha una malattia cerebrale”.
Perché molta patologia psichiatrica si lega alla nascita di un bimbo?
“La nascita di ogni bimbo costringe l’adulto ad un rapporto nuovo e sconosciuto. Se l’adulto ha perso la propria capacità di reagire e immaginare di fronte al proprio simile (la propria fantasia), allora per lui l’umano non esiste più, è stato cancellato. In tal caso questo bimbo non è percepito “umanamente” ma diventa una realtà solo materiale. Una “cosa” che, come ogni altra cosa al mondo, può essere conservata o eliminata. Conservata se considerata utile (da utilizzare a fini pratici). Eliminata se considerata inutile o difettosa (ricordiamoci del delitto di Cogne) oppure d’ostacolo (come sembrerebbe in questo caso).
Quanto descritto accade nel caso peggiore di una totale disumanizzazione dell’adulto, ma il più delle volte l’essere umano conserva un certo rapporto con la propria immaginazione (anche se sotto forma di fantasticherie) e con la propria affettività (anche se si tratta di rabbia e odio) e quindi non può fare a meno di attribuire un “senso” personale ai suoi simili. Purtroppo, nella misura in cui tale attribuzione di senso proviene da una immaginazione e una affettività alterate il risultato non sarà conforme alla verità di colui che è percepito.
Allora la nascita cessa di rappresentare, come nei sani, l’immagine positiva di un venire alla luce riuscito nonostante… nonostante tutto! di una vittoria della vita umana sulla non vita umana, di un’affermazione del nuovo sulla ripetizione consueta, generando così stupore e meraviglia.
Stupore e meraviglia che, in verità, non sono solo suscitati dall’evento ma sono riferibili contemporaneamente anche al fatto di sentire dentro di sé un’emozione inaspettata provenire da chissà dove, che ci parla di una profondissima memoria della nostra nascita, ormai seppellita sotto decenni di delusioni, che ci costringe ad accettare, con stupore e meraviglia appunto, di non essere ancora morti (almeno non del tutto!), di avere ancora delle speranze e di volerle realizzare.
Non è così nella triste situazione della malattia psichica, laddove aver perso o rovinato (o credere di aver perso o rovinato) la propria fantasia (la memoria inconscia della nascita) rende insopportabile quello che ogni neonato rappresenta e fa scattare l’aggressività verso chi rinnova la vita umana, verso chi con la sua venuta al mondo diviene un’immagine intollerabile per quello che essa rappresenta”.
In che modo si può fare prevenzione?
“Al di là della prevenzione secondaria, cioè come, in questa specifica tragedia, avrebbero dovuto reagire i vicini di casa, la sorella, il compagno, il pediatra, mi sposto sul tema della prevenzione primaria e qui la risposta difficilissima. Si potrebbero dire mille cose o anche una soltanto, in coerenza con quanto detto prima. Ovvero la prevenzione della violenza verso i neonati e i bimbi piccoli in generale coincide esattamente con la prevenzione della malattia mentale tout court.
Detto in altre parole conservare o recuperare la capacità di reagire al disumano e la capacità di immaginare l’umano, cioè le due capacità che segnano la nascita umana significa, nel corso della vita, reagire con resistenza e rifiuto verso tutto ciò che è brutto, stupido, ingiusto, violento, falso, ripetitivo etc. da un lato e dall’altro esser sempre pronto a innamorarsi di ciò che rappresenta l’opposto di tutto ciò ma significa anche essere nell’impossibilità assoluta di agire una qualsivoglia violenza verso un bimbo.
Potresti obbiettare, giustamente, che io ho solo spostato il problema eludendo la risposta dovuta.
Non scappo e ti rispondo che la prevenzione della malattia mentale la si fa combattendo duramente, e magari per tutta la vita, verso tutte quelle “culture”, tutte quelle “ideologie”, tutte quelle “teorie” che ci vogliono far credere alle bugie, perché credere alle bugie significa indebolire le nostre “difese immunitarie” psicologiche.
Le bugie più pericolose sono quelle che riguardano la nostra identità umana e la sua specificità.
Esse sostanzialmente si esprimono in due modi:
La prima afferma che ciò che qualitativamente ci differenzia dagli animali, cioè l’essenza della nostra umanità, è emanazione di un ente trascendente (creatore) e che quindi è immodificabile e inconoscibile (l’anima). La “psiche” sarebbe di natura spirituale e separata dal corpo.
La seconda afferma che in realtà la differenza con gli animali è solo quantitativa, in quanto saremmo anche noi animali, ma solo più intelligenti (la nostra famosa corteccia cerebrale) e più bravi (le caratteristiche anatomo funzionali della nostra mano). La Psiche non esiste, esiste solo il corpo.
Credere a tali bugie rende difficile poi contrapporsi efficacemente a chi, nel primo caso, fa risalire certi efferati figlicidi alla oscura potenza demoniaca del male (come fu nel caso Cogne da parte di un famoso scrittore ed è stato per ultimo ripetuto sui media nel caso della madre assassina di Catania…)
Nel secondo caso invece ci si deve confrontare con chi attribuisce anche alle donne un animalesco “istinto materno” che qualche volta farebbe cilecca, ignorando che le relazioni tra gli animali (e quindi anche quella tra genitrice e prole) sono certamente istintuali e valgono indistintamente per tutti gli esemplari della specie mentre quelle tra umani (in particolare proprio la sessualità e il rapporto genitori figli) sono dettate dal tipo di realtà psichica dei singoli individui, ancor prima dei condizionamenti socioculturali. In definitiva per essi non ci sarebbe nessuna differenza tra il parto di una femmina umana e quello di una femmina animale, o tra i bisogni di un cucciolo e le esigenze di un bambino”.
Testo e foto di Filippo Trojano
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