Da Contrada a Ultimo: la stagione dei veleni infiniti che spacca l’Antimafia

Per evitare equivoci bisogna subito precisare che la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Europea non ha stabilito che Bruno Contrada è innocente, ma solo che non doveva essere condannato per il reato di concorso in associazione mafiosa. La differenza non è lessicale ma sostanziale: è il tipo di reato che viene giudicato non conforme ai diritti dell’uomo, mentre nulla si afferma riguardo al fatto che Contrada sia stato o meno colluso con la mafia.
Ad accentuare il carattere “pilatesco” della sentenza anche la circostanza che Strasburgo ha riconosciuto all’ex funzionario del SISDE i danni morali, ma non quelli materiali (ben più ingenti) subiti per far fronte a venti anni di procedimenti giudiziari.
Invece di partecipare all’arena delle opposte tifoserie pronte ad attaccare pregiudizialmente la magistratura o a difenderla strenuamente in ogni caso, occorre riflettere su come sia stato possibile dividersi, in Sicilia, sulla lotta alla mafia, un fronte in cui tutti dovrebbero stare dalla stessa parte.
Cominciamo dagli strumenti. Non c’era bisogno di attendere la sentenza di Strasburgo per affermare che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è una forzatura giuridica: troppo labili i confini fra appartenenza, favoreggiamento, concorso quando si opera in un ambiente così permeato dalla mafia, quale era la Sicilia degli anni Settanta, Ottanta e Novanta.
Eppure la scelta di perseguire questa strada fu quasi obbligata: per decenni il controllo mafioso del territorio era stato ben più forte di quello dello Stato e stare dalla parte della mafia era certamente più conveniente per il semplice cittadino: nessun rischio di ritorsione, nessun rischio di guai con la giustizia (la stessa esistenza della mafia veniva messa in dubbio nei tribunali) vantaggi economici per chi partecipava agli affari, quieto vivere per chi osservava senza interferire.
L’avvento di magistrati come Chinnici, Falcone, Borsellino che trovarono la chiave di volta per entrare nei santuari di Cosa Nostra grazie al ruolo dei pentiti, stravolse questa pax mafiosa: le condanne al maxiprocesso furono una sorta di dichiarazione di guerra dello Stato che la mafia raccolse alzando il tiro contro le istituzioni e utilizzando addirittura l’arma del terrorismo.
In una situazione che potremmo definire tecnicamente bellica, lo Stato non poteva permettere che ci fosse una zona grigia di fiancheggiamento, una sorta di camera di compensazione fra gli affari della borghesia e gli interessi mafiosi.
Ispiratore e interprete di questa linea fu Giancarlo Caselli che scelse la linea dura perseguendo tutti coloro che, a vario titolo, avevano contatti diretti o indiretti con Cosa Nostra.
Una scelta che definiremmo obbligata nella situazione data e che ebbe il merito di tracciare una linea chiara di separazione, che non era stata tracciata ai tempi del terrorismo dove il motto “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse” aveva fatto molti proseliti.
Insomma la forzatura del concorso esterno fece in modo che diventasse rischioso fare affari con la mafia, anche senza farne parte, dando anche un segnale chiaro che lo Stato intendeva impegnarsi veramente nella lotta, cosa che non era successa dai tempi del prefetto Mori.
In questa scelta obbligata c’erano però i germi della spaccatura del fronte antimafia: nella zona grigia fra Stato e Cosa Nostra, non si muovevano solo politici e faccendieri, ma anche uomini delle istituzioni chiamati ad indagare sul fenomeno. In tutto il mondo esistono gli “informatori”, criminali piccoli e grandi che si assicurano vantaggi personali con le delazioni; ed esistono quindi anche uomini delle forze dell’ordine che raccolgono queste informazioni e le utilizzano per le indagini.
E’ questo il contesto in cui si muovevano uomini come Contrada: è ovvio che per usare gli informatori li devi frequentare quindi la linea netta di separazione tracciata fra Stato e mafia lasciò scoperti questi personaggi che, improvvisamente si ritrovarono dentro le linee “nemiche” a dover giustificare le loro azioni.
Contrada fu accusato dunque per vendetta o perché effettivamente aveva interessi comuni con i mafiosi? Il processo in Italia ha ritenuto prevalente la seconda ipotesi, la sentenza di Strasburgo la mette in dubbio.
Il problema si pone anche con i Carabinieri del Ros, perseguiti negli anni dalla Procura di Palermo, prima per la mancata perquisizione del covo di Riina, poi per la trattativa sulle stragi: operarono per interessi personali o in qualità di servitori dello Stato?
Sulla cattura di Riina e sugli atti successivi è prevalsa la seconda ipotesi e si è arrivati all’assoluzione; sulla trattativa il processo è ancora in corso e la spaccatura è frontale. Addirittura il colonnello Sergio De Caprio, il mitico Ultimo, ha definito i pm
“farisei della giustizia e della infamazione reazionaria” ricevendone una ovvia querela per diffamazione.
Mettetevi nei panni di Ultimo: sei un eroe, hai catturato Riina dopo anni di pedinamenti rischiosi in un ambiente ostile e poi vieni trascinato alla sbarra come un delinquente comune: è difficile mantenere l’equilibrio, anche se le sue affermazioni non possono trovare alcuna giustificazione.
Per risolvere la questione occorrerebbe probabilmente un intervento legislativo: gli uomini delle Istituzioni possono essere perseguiti per reati di mafia, solo se viene provato che hanno ricavato un vantaggio personale concreto dalla loro attività.
Altrimenti continueremo ad assistere a queste lotte intestine che hanno il solo risultato di indebolire il fronte antimafia.