Abbiamo sempre sostenuto che Rosario Crocetta ha un personalissimo concetto di legalità che potremmo sintetizzare in questo modo: per le persone comuni, qualunque sentenza, indagine, comunicazione giudiziaria o anche solo parentela sospetta è sufficiente per intervenire draconianamente ed eliminare il problema alla radice.
Per le procedure amministrative, lui decide cosa è giusto fare e lo fa scegliendo la via che gli sembra più rapida per raggiungere l’obiettivo: leggi, norme e regolamenti sono solo un orpello burocratico. Risultato, il maggior numero di sconfessioni che un governo della Regione abbia mai subito dai giudici amministrativi.
C’è però un gruppo di persone sottratto a questa visione sui generis della legalità: sono i collaboratori che Crocetta ha scelto personalmente all’inizio della sua stagione a Palazzo d’Orléans, che da questa scelta sono stati salvificamente mondati dei loro peccati passati e futuri.
Per capirci meglio possiamo fare qualche esempio: Il dirigente regionale Francesco Schillaci, che Crocetta mise alla gogna in una conferenza stampa sostenendo di averlo trasferito perché “genero di un boss” nonostante avesse un curriculum ultratrentennale immacolato; il Presidente dell’Ente Parco delle Madonie, Angelo Pizzuto, rimosso per una storia relativa ad un viaggio in Canada che non aveva mai fatto e poi reintegrato dal CGA e tuttora in sella; Marilena Bontade, figlia del boss Stefano, che figurava fra i 76 dipendenti di Sicilia e Servizi che dovevano essere assunti dalla Regione, ma esclusa da una commissione nominata dal commissario Ingroia e definita “priva di ogni ancoraggio normativo” dalla Corte dei Conti.
Sul fronte opposto ci sono le posizioni di Anna Rosa Corsello, rinviata a giudizio per peculato in relazione all’uso improprio dell’auto di servizio, ma sempre al vertice dell’amministrazione regionale, nonostante le pesantissime accuse rivolte ad un’altra pupilla di Crocetta, Nelli Scilabra, per la vicenda del “flop day” che da sola avrebbe giustificato politicamente l’allontanamento della Corsello, anche senza rifarsi alle sue vicende giudiziarie.
Dulcis in fundo la dr.ssa Patrizia Monterosso, esimia navigatrice dei perigliosi mari della politica siciliana, in auge con Forza Italia, poi con Raffaele Lombardo ed anche con la rivoluzione crocettiana: un miracolo di longevità per una dirigente esterna, che con una laurea in filosofia si è installata al vertice dell’amministrazione regionale.
La signora in questione è stata condannata per un danno erariale di oltre un milione di euro per la vicenda degli extrabudget della Formazione professionale, che non è un incidente di percorso, ma la chiave di volta di quella che lo stesso Crocetta definisce “la manciugghia” della Formazione professionale.
Funzionava così: l’Assessorato assegnava un finanziamento a ciascun ente di formazione. La politica sovraccaricava gli enti di assunzioni inutili e clientelari con la promessa che a pagare le spese sarebbe stata “mamma Regione”. E così avveniva puntualmente: ogni ente presentava i fogli paga aggiuntivi che venivano appunto liquidati extrabudget.
Chi, da Dirigente Generale (e non da oscuro e ignaro funzionario) firmava questi provvedimenti di spesa? proprio la dr.ssa Monterosso che per altri 5 anni è rimasta salda al vertice della Regione, agli ordini dei “manciatari” (secondo la vulgata di Saro da Gela) senza mostrare alcuna resipiscenza, salvo poi sposare il credo crocettiano del “dacci oggi la nostra denuncia quotidiana”.
Adesso non siamo più soli a giudicare fasulla e doppiopesista la concezione di legalità del nostro Presidente: nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la Presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, Luciana Savagnone scrive a proposito di Crocetta: “L’affermazione, resa agli organi di stampa, secondo cui le sentenze della Corte dei Conti hanno il valore di una sanzione amministrativa, trascura di considerare che chi emette le sentenze e condanna è un giudice e ciò fa solo dopo un’attenta valutazione dell’elemento soggettivo della responsabilità”.
Insomma il re è nudo e chi gli tiene bordone è un giullare di corte.
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