Crocetta, Faraone e la guerra ai dipendenti regionali
Rosario Crocetta e il PD, separati in casa in questi due anni e mezzo di governo, hanno trovato l’accordo sulla Finanziaria di Baccei, basata su tagli a retribuzioni, pensioni e benefit dei dipendenti regionali. Un terreno fertile perché, nell’immaginario collettivo, l’amministrazione regionale è una specie di paese di Bengodi dove si viene pagati profumatamente per leggere il giornale o i siti di informazione online.
Per cui nel marasma generale di fallimenti (la finta riforma delle Province, la Sanità fatta a fette dai tagli, le decine di ricorsi persi davanti ai tribunali amministrativi, le decisioni contraddittorie e illogiche sull’informatica, i “flop day” e chi più ne ha più ne metta) gli unici settori in cui Crocetta raccoglie ancora consensi sono la Formazione Professionale, altro carrozzone mangiasoldi inviso a tutti e, appunto, i tagli ai dipendenti regionali.
E dunque il Presidente della Regione su questi fronti si è messo di impegno: nella Formazione mandando al macero gli enti (non tutti) e il personale (ottomila famiglie); sui dipendenti regionali, programmando una robusta serie di sforbiciate. E il popolo affamato gode all’insegna del “mal comune mezzo gaudio”.
Non c’è alcun dubbio che si dovesse intervenire per eliminare sprechi e inefficienze, così come si possono condividere alcuni dei provvedimenti contenuti nella Finanziaria dell’Assessore Baccei. Quello che spaventa è l’apparente voglia di radere tutto al suolo (come già fatto nella Formazione professionale) considerando l’amministrazione regionale una sorta di male inevitabile da ridurre ai minimi termini per risparmiare.
Da quando si è insediato, Crocetta e i suoi collaboratori non hanno fatto altro che sgonfiare le ruote sulla macchina che li dovrebbe trasportare, salvo poi lamentarsi se i miliardi dell’Unione Europea non vengono spesi o vengono spesi male.
Da quando, con la legge 10 del 2000, si è pensato di affidare alla burocrazia la responsabilità delle scelte, per evitare che la politica favorisse i suoi interessi, è accaduto esattamente il contrario. Mentre prima, con la responsabilità condivisa, c’era qualche remora ad adottare procedure di dubbia legittimità, adesso si è trovato il modo di bypassaree il problema, attraverso il meccanismo di affidamento degli incarichi.
Funziona così: i dirigenti generali sono nominati dall’Assessore di turno che, in qualunque momento può cacciarli perché il rapporto è “fiduciario”; e siccome l’incarico vale circa 4 mila euro netti in più al mese, quando ricevono un ordine devono eseguirlo per non rimetterci di tasca. Ma per eseguire un ordine occorre la collaborazione dei dirigenti intermedi che, a loro volta, sono nominati dai dirigenti generali.
A difesa dell’autonomia dell’amministrazione erano stati immaginati due meccanismi: il primo, la selezione attraverso la cosiddetta “valutazione comparativa”, che imponeva almeno teoricamente di scegliere i migliori; il secondo la clausola di salvaguardia per evitare che la perdita dell’incarico, anche immotivata, si trasformasse in una penalizzazione economica.
La valutazione comparativa è rimasta solo sulla carta: i dirigenti generali chiedono i curriculum ma poi scelgono sulla base della fedeltà e dell’appartenenza. Se la Commissione regionale antimafia, che ha competenza anche sul buon andamento della pubblica amministrazione, andasse a spulciare le procedure di affidamento degli ultimi tre anni, potrebbe agevolmente verificare che solo per una fortuita coincidenza, l’incarico va al dirigente col curriculum migliore. In tutti gli altri casi prevale la “raccomandazione”, che ha il duplice vantaggio di accontentare il padrino politico e di ottenere la fedeltà assoluta del nominato, il quale sa che la discrezionalità usata per affidargli l’incarico (e la connessa retribuzione) può servire a revocarlo in qualsiasi momento.
Così il cerchio è chiuso: la politica dà l’ordine al dirigente generale che, a sua volta, lo trasmette al dirigente intermedio e tutti eseguono per non perdere il posto. Questa prassi generalizzata è favorita anche dal sistema giudiziario: se ci si rivolge al giudice civile o amministrativo si devono attendere anni e, nel frattempo, si resta esposti alle ritorsioni del sistema che emargina i “ribelli”; se ci si rivolge al giudice penale è praticamente impossibile ottenere soddisfazione perché, di fatto, il reato di abuso in atti d’ufficio è impossibile da dimostrare anche a fronte di procedure palesemente illegittime.
Risultato, tutti calano la testa e ci ritroviamo con una amministrazione dequalificata e permeabile al malaffare.
Di tutto questo non c’è traccia nei provvedimenti di Crocetta e nella dichiarazione di guerra di Faraone che conosce bene il funzionamento dei gabinetti, dove ha piazzato tanti renziani in erba ma, evidentemente, non ha idea di come funzioni la macchina burocratica (almeno ce lo auguriamo).
La decisione, contenuta nella finanziaria regionale, di tagliare circa 600 delle oltre 1500 posizioni dirigenziali, ancorché assolutamente condivisibile nell’ottica di riequilibrare il numero dei dirigenti rispetto al resto dei dipendenti, finirà per distruggere quel poco di competenza che è rimasto nell’amministrazione regionale. Avremo circa 1800 dirigenti per 900 incarichi da assegnare con assoluta discrezionalità: pensate che la politica sceglierà i migliori o quelli pronti a firmare di tutto pur di mantenere la retribuzione di parte variabile?
Il risultato di questa dequalificazione di massa è sotto gli occhi di tutti: mai nella storia dell’Autonomia l’amministrazione aveva perso tante cause come negli ultimi due anni, con un paradosso aggiuntivo. Ai tempi delle vacche grasse, i burocrati erano talmente competenti da trovare procedure legittime per atti spesso finalizzati a interessi di parte; adesso anche i provvedimenti che avrebbero un obiettivo condivisile vengono bocciati, perché chi li firma non ha alcuna conoscenza del diritto amministrativo. Avanti così verso il baratro.