Coronavirus e traumi: analisi e consigli dello psichiatra d’emergenza

L’emergenza Coronavirus vista con gli occhi dello psichiatra di guerra. L’intervista alla medaglia NATO Alberto D’Argenio, docente e medico presso il Policlinico Universitario di Tor Vergata, oggi centro di ricovero Covid19.

Professore, lei che nel corso della sua carriera ha partecipato alle missioni di pace in Bosnia Erzegovina ed in Kosovo-  oltre che aver prestato assistenza alle vittime militari rientrate dall’Iraq e dall’Afghanistan – può tracciarci le differenza tra i traumi da guerra e quelli da Covid19? 

“Per molti anni sono stato ufficiale medico al Politecnico militare Celio impegnato nell’assistenza specialistica alle vittime degli attentati di Nassyria. Il cosiddetto “disturbo post-traumatico da stress” – di cui si parlava con riferimento alle sopracitate guerre – è caratterizzato dalla persistenza di un evento traumatico acuto specifico. Il soggetto deve aver subito un trauma che ha messo a repentaglio la propria esistenza. I soldati che tornavano dalla guerra, infatti, erano vittime che erano stati esplosi da una mina, piuttosto che sopravvissuti ad attentati. Presentavano talvolta mutilazioni fisiche. Nella guerra contro il Covid-19 l’esperienza è diversa. Il disturbo post-traumatico è riferibile solo a chi ha avuto una terapia intensiva. Lo shock da quarantena è altro: ha la sintomatologia del “disadattamento” che consiste in ansia e depressione reattive. Queste derivano da cause di natura diverse. Però prima di tracciare bilanci dobbiamo ancora navigare a vista perchè è una situazione completamente nuova”.

In questo momento a combattere in prima linea a fianco ai contagiati più gravi sono i medici e i para-medici. Quali sono gli shock che stanno vivendo e come li aiutate a gestire lo stress emotivo?
 

“Il trauma per i medici e gli operatori è la visione della sofferenza dei pazienti, della morte e l’impotenza che ne deriva. Assistono quotidianamente a crisi respiratorie gravi, alla morte di numerosi pazienti, a decessi di persone che non potranno avere un funerale nè mai più contatto con i propri cari dal momento in cui entrano. Quando poi si tratta del decesso di giovani è la cosa peggiore. Per giorni e giorni ci è stato detto che sarebbero morte solo persone over 60. La realtà, invece, ci sta mostrando qualcosa di diverso. Dover assistere e soccorrere medici e para-medici che si sono infettati nello svolgere il loro lavoro rappresenta una sollecitazione emotiva importante. Questo non solo perchè sono colleghi, ma perchè si capisce che si sono infettati per una – allora – non efficace strutturazione di supporti e di mascherine idonee. Fondamentalmente i contatti di tutti coloro che sono impegnati in prima linea sono correlati al periodo antecedente quello della quarantena, quando i presidi erano pochi. Questo crea dolore per la frustrazione e per il timore del “potrebbe succedere anche a me”. Il problema per i colleghi è quello della paura di doversi proteggere. Stare un intero turno con maschera FFP3, calzari, tute e guanti è piuttosto pesante.

Quello che facciamo per il personale sanitario impegnato quotidianamente in modo diretto con i pazienti affetti da Covid19 è l’attività di refusing. Si tratta di colloqui di gruppo in cui ripercorriamo gli eventi traumatici a cui hanno assistito e le emozioni che hanno suscitato”.
La pandemia si sta traducendo anche in un’emergenza di natura psichiatrica?

“Abbiamo gli ambulatori chiusi in questo momento. Sono state ridimensionate le attività che non riguardano i pazienti colpiti da Covid19. Sono dunque diminuiti gli accessi. Le patologie di spettro “nevrotico” – ansia, disturbi umore e comportamentali alimentari – accedono molto meno nelle strutture. I disturbi di area “psicotica” – crisi bipolari, personalità – sono gli stessi. I TSO, cioè i ricoveri coatti, sono leggermente diminuiti. La paura che hanno i pazienti di venire in ospedale per il timore del contagio e la chiusura di molte attività ambulatoriali diminuiscono la possibilità di monitorare al meglio i soggetti a rischio. Questa evenienza e lo stress prolungato che la quarantena determina contribuiscono ad aumentare anche le condotte autolesive nei pazienti più gravi. Anche in quelli che non praticano adeguati trattamenti farmacologici e psicoterapeutici. Ma essendo in una fase iniziale, l’andamento andrà verificato con il tempo”.

Vi aspettate un aumento delle sintomatologie e del numero di pazienti?

“Sarà interessante valutare la situazione. Ora siamo in fase di quarantena in atto, le restrizioni continueranno. E’ possibile che per soggetti labili questo sia sentito maggiormente come fattore di scompenso psico-patologico. L’epidemiologia ci dice che spesso nei periodi di maggior preoccupazione, come dimostrano i periodi bellici, si assiste a una diminuzione della sintomatologia dei disturbi d’ansia e dell’umore. In altre parole la persistenza della necessità di fare pronti bisogni primari rende altre necessità meno impellenti. Per le psicosi invece il danno resta stabile. Si amplificano lo stress e i disturbi dell’adattamento”.

Immagino che con le misure restrittive imposte dalla quarantena sia cambiata anche la modalità di comunicazione del lutto e la sua rielaborazione…

“Il problema è che è stravolta la modalità di comunicazione del lutto. In condizioni normali infatti sarebbe raccomandato comunicarlo di persona, ma qui è completamente impossibile. I parenti sono in quarantena e non possono venire in ospedale. Le visite ai pazienti sono vietate per cui entrano spesso con le proprie gambe – quelli che riescono ad entrare – e da quel momento restano soli. I casi più gravi non hanno più comunicazioni con i parenti. Questi in alcuni casi si trovano così con padre, madre, figlio o zio che avvertono le iniziali difficoltà… e poi si vedono ricevere la comunicazione che il soggetto è morto. Ci troviamo di fronte all’impossibilità di darla verbalmente. Questa infatti solitamente viene riferita a voce – con tono caldo e rassicurante – da almeno due persone. Invece in questo caso deve essere telefonica – anche qui il più rassicurante possibile – ma possiamo limitarci a riferire l’accaduto, raccontando con partecipazione emotiva tutto ciò che è stato fatto per aiutare il parente deceduto e dando una disponibilità all’ascolto”.

Quarantena e violenza domestica: una delle preoccupazioni è proprio quella che per certi soggetti la convivenza forzata possa tradursi in una tragedia…

“Sono passati 20 giorni dall’inizio della quarantena. Pensavamo peggio, è stato istituita un App da parte del Ministero per segnalare le violenze visto che è complicato recarsi in commissariato. La minaccia esterna e il nemico comune ha portato determinati livelli di conflittualità ad attenuarsi, a seppellire l’ascia di guerra. Non abbiamo assistito a un esplosione della violenza familiare. Bisogna però attendere la fine della quarantena prima di tracciare un bilancio…”

La quarantena così rigida fa paura alle persone a casa. Quali consigli si sente di poter dare per gestire la solitudine?
“Il tempo di quarantena è un “tempo-non-tempo”. Tutti riportano di averne tanto ma di non riuscire a fare molte cose. Questo sia perchè molte attività necessitano di un tempo molto più prolungato per le file che ci sono e per le ore spese nel munirsi di precauzioni… sia perchè molte attività non si possono svolgere. In ogni caso consiglio di mantenersi in attività, guardare la TV ma non troppe notizie, tenersi vivi nei rapporti con i social network, impegnarsi nella lettura e in attività che diano il senso di aver impegnato il tempo nell’aver realizzato qualcosa. Per i giovani e i ragazzi è importante l’e-learning per continuare ad avere un aggancio alla realtà”.
… e quali i consigli per i piccoli in quarantena?
“Spingere su attività finalizzate, mantenere contatti con compagni e limitare l’uso di video giochi e playstation. Questi se diventano l’unico canale di svago e di impiego del tempo possono diventare deleteri: da attività a scopo ludico-ricreativo diventerebbe una dipendenza”.

Fine quarantena: cosa prevede a livello di reinserimento sociale? Il timore tra le persone persisterà a lungo?

“Sicuramente il timore permarrà per molto tempo. Certamente fino a quando continuerà a esserci una segnalazione di casi positivi e finchè non si troverà un vaccino effettivamente efficace e disponibile per l’intera popolazione. E’ una situazione completamente nuova: per ritrovare il livello “pestilenziale” di quest’epidemia dobbiamo andare nel secolo scorso all’influenza spagnola che è stata l’ultima unica grande epidemia che ha investito il mondo occidentale, per cui non è semplice da prevedere. Qualcosa in noi è cambiato in maniera importante e forse definitiva. Permarrà sempre la paura che potrà avvenire di nuovo qualcosa di diverso”. 

E cosa prevede per i consumi a fine quarantena? Ci sarà una corsa agli acquisti?

“Chi avrà possibilità consumerà questo e quell’altro. I beni voluttuari di poco impegno economico saranno molto consumati perchè la gente sentirà la necessità di gratificarsi. Ci sarà una gran voglia di spendere. Certo, per beni di lusso, viaggi e spese esose ci sarà da scontrarsi con le ristrettezze economiche che stanno già emergendo”.