Agricoltura: i contadini custodi e i semi della resistenza

Nell’era della globalizzazione, della grande distribuzione, del buono perché appare bello, Gianluca Pannocchietti, ha deciso di piantare a Rosolini i semi di una resistenza, che ha le sue radici nell’amore incondizionato per questa terra e il sapore dolce di una sfida baciata da un sole, che scalda da sempre chi non si arrende al torpore e al fatalismo.

Gianluca, cosa vuol dire essere un contadino custode?

“Vuol dire recuperare tutte le vecchie varietà di frutta della tradizione locale e conservarle per non farle perdere. E poi metterle in produzione per creare un’economia diversa da quella attuale. Se si va al supermercato ci sono solo due, tre varietà di frutta, a cui non abbiamo accesso acquistando dalla grande distribuzione. Per fare un esempio, in Sicilia, culla della biodiversità, sono state censite circa 170 varietà di pere. Alcune di queste sono state recuperate grazie al fatto che un tempo c’erano dei viandanti che andavano da Palermo fino al ragusano, e lungo il loro viaggio facevano degli innesti, perché così quando sarebbero tornati su quel percorso avrebbero trovato la frutta per strada. Era un atto di generosità anche nei confronti degli altri viaggiatori”.

Come hai iniziato il tuo percorso di custode?

“Io appartengo ad una famiglia di agricoltori: mio padre mi ha trasmesso l’amore per la terra. Il recupero delle varietà antiche è iniziato circa 12 anni fa. L’input me lo diede mio zio, che un giorno mi portò a fare un giro in una zona dove c’erano diverse varietà di pere. In seguito con un amico abbiamo capito che era arrivato il momento di aprire un’azienda agricola destinata alla coltivazione della frutta antica e preservare la biodiversità. Così è nata la Valle del Tellaro.

Abbiamo recuperato anche una antica varietà di mandorla, molto dolce, ricca di oli essenziali e resistente alle gelate, chiamata “Chirucupara”, che è stata inserita nel catalogo Arca del Gusto di Slow Food. La Chiricupara si coltivava sotto Rosolini, ma venne abbandonata a favore della varietà Romana, che meglio si prestava alla lavorazione per la produzione dei confetti”.

La vostra modalità di coltivazione va oltre quella che oggi viene definita agricoltura biologica.

“Si, siamo certificati come azienda bio per una questione burocratica, però non utilizziamo nessuno dei trattamenti consentiti dalla legge. Per la concimazione non utilizziamo neanche il letame, perché da delle analisi condotte diversi anni fa sulle feci degli animali, ci siamo accorti che contenevamo ormoni e antibiotici, il che avrebbe distrutto tutto il nostro lavoro. In generale cerchiamo di far si che le piante crescano in un ecosistema che abbia un suo equilibrio, inserendo ad esempio altre piante che servano da rifugio per gli insetti utili. Per me fare agricoltura biologica equivale a rispettare il paesaggio, il che è inconciliabile con le monocolture”.

E nel tempo hai iniziato a organizzare dei corsi. Sono più i giovani o gli appassionati che si avvicinano all’arte dell’innesto?

“Non mi piace chiamarli corsi, le considero delle giornate in cui metto a disposizione la mia esperienza. Ci sono sia molte persone che si sono riavvicinate all’agricoltura e che vogliono curare un pezzetto di terra che magari hanno ereditato, sia giovani che guardano alla Sicilia con occhi nuovi e vogliono capire come fare questo lavoro”.

Quali proprietà ha un frutto coltivato naturalmente?

“E’ sicuramente più piccolo ma anche più dolce e compatto, perché per difendersi dall’esterno crea delle sostanze che lo rendono tale. Per fare un esempio, le fragole che provengono da agricoltura tradizionale spesso sono vuote al centro, il che è dovuto all’utilizzo di ormoni ed eccessiva concimazione, che fa crescere velocemente il frutto e lo fa marcire prima”.

Come è possibile far fronte all’emergenza idrica e al rischio di desertificazione?

“Coltivando piante autoctone, come si faceva tempo fa in aridocultura. Per il mandorlo, ad esempio, utilizzo una varietà selvatica che cresce nella mia zona, quasi in assenza di acqua. Ma a questo tipo di coltivazione si dovrà tornare, soprattutto nella zona tra Ispica e Pachino, dove la serricoltura è stata talmente invasiva che ha impoverito i suoli”.

E a farne le spese è il nostro pomodoro di Pachino.

“Il pomodoro di Pachino oltre a subire la concorrenza del Nord Africa, ha subito la mancanza di una programmazione che preservasse il suolo. Una soluzione può essere la coltivazione fuori suolo, dove però si perde la tipicità del prodotto, che non è più espressione di un territorio, basta la concimazione in contenitori in fibra di cocco”.