«Nella “Giornata del ricordo” voglio rivolgere un commosso pensiero alle migliaia di vittime della ferocia comunista, uccise e gettate nelle foibe perché colpevoli di essere italiani. Alcuni infoibati erano siciliani, molti tra i superstiti si rifugiarono nella nostra Isola, dove trovarono calore umano, accoglienza e la possibilità di progettare una nuova vita” dichiara il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci nel giorno della commemorazione delle vittime della strage delle foibe.
“La nostra condanna non va solo ai feroci assassini ma anche a quella parte (la stragrande maggioranza) della politica e della cultura italiana che per oltre mezzo secolo ha voluto tacere e nascondere questa orribile pagina della storia nazionale” conclude.
L’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà questa mattina ha partecipato alla cerimonia organizzata a Palermo dall’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, nella villa intitolata ai Martiri delle Foibe e ha dichiarato: “Oggi celebriamo il «Giorno del Ricordo» per conservare la memoria sull’immane tragedia degli Italiani e di tutte le vittime delle Foibe, le fosse comuni nelle quali al confine nord-orientale furono massacrate migliaia di persone ad opera dei partigiani comunisti jugoslavi del maresciallo Tito. Parlare di Foibe, se da un lato è come riaprire e rinnovare un dolore quasi inenarrabile, dall’altro è, invece, come squarciare un velo su una terribile verità che, per oltre mezzo secolo, è stata taciuta con un’operazione abile e «scientifica»”.
Nel settembre del 1943 in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali.
I fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si stima, circa 250 mila persone.
Una morte crudele: i condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
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