La mossa sino-nipponica in parte è il risultato della richiesta generale di un riassestamento delle maggiori valute mondiali. Gli stessi Usa lo hanno più volte chiesto alla Cina, ma certo non intendevano pressare per l’abbandono del dollaro, tutt’altro. Gli Stati Uniti da anni reclamano una rivalutazione del renminbi, ma Pechino nicchia per difendere il suo export, anzi non è da escludersi addirittura una svalutazione del renminbi entro la fine del 2012. Cosa che farebbe impennare le merci cinesi nel mondo, spazzando via qualsiasi eventuale pessimismo in merito alla possibilità dei prodotti Made in China di “sprintare” ancora sui mercati globali.
La Rep Pop rappresenta per l’Impero nipponico il partner commerciale in assoluto più importante. Fra i due Paesi vi sono scambi per 26.5 trilioni di yen (ovvero 3.340 miliardi di dollari), con un trend al rialzo che in 10 anni li ha visti triplicare. Ovvio, quindi, che Tokio (con un debito pubblico che è il più alto al mondo) debba necessariamente concedere qualcosa a Pechino, anche accorgendosi dell’eventuale danno derivante all’alleato americano nell’assecondare i desideri del colosso post maoista. E dalla decisione di usare renminbi e yen per l’interscambio Cina-Giappone un vulnus per gli Usa già si può intravedere: i due Paesi asiatici avranno meno bisogno di dollari e ciò contrarrà bruscamente lo “spazio” sul quale gli Stati Uniti possono “spalmare”, tramite l’inflazione, gli effetti delle proprie scelte espansive.
Per l’estate prossima, poi, la Federal Reserve americana ha addirittura in programma una nuova immissione di liquidità (la terza), in ossequio al dogma del quantitative easing tanto caro al governatore Ben Bernanke, politica che fin qui è riuscita a limitare i danni della crisi economica globale per i cittadini statunitensi. Bernanke eviterà un simile passo dopo la scelta di Pechino e Tokio? Pare difficile, ma staremo a vedere. Fra Cina e Usa è ormai una partita a scacchi. Con l’egemonia sull’intero pianeta come posta in gioco.
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