Il referendum di domenica in Catalogna, salutato dai suoi promotori come un grande momento storico di democrazia e autodeterminazione popolare, è stata un’occasione mancata per diverse ragioni.
Prima di tutto, per il modo in cui ci si è arrivati. Non vi è stata una concertazione col governo centrale, simile a quella già sperimentata in Scozia. La Generalitat catalana presieduta da Puigdemont ha scelto la via dell’unilateralismo, forse stanca di aspettare passi avanti da parte di Madrid, oppure conscia dei risvolti tattici della propria iniziativa elettorale.
Dalla parte opposta della barricata, infatti, gli “unionisti” sono caduti nella trappola politica dei propri avversari: anziché sminuire il valore dell’appuntamento referendario, ne hanno ingigantito la portata con una repressione militare di altri tempi e senza senso. Di questo disastroso passaggio, per inciso, il premier Rajoy continuerà a portarne le responsabilità anche nella remota ipotesi in cui le fratture dovessero ricomporsi.
La violenza ai seggi, una cosa che in Europa occidentale non si vedeva da molto tempo, è un altro dei fattori che dovrebbero far riflettere sulla validità del referendum. L’affluenza bassa (sotto il 50%), il sequestro delle schede e soprattutto le molte irregolarità registrate ai seggi non permettono di stabilire con sicurezza quale sia il reale volere della maggioranza in Catalogna.
L’unica cosa sicura è che la questione della legalità referendaria rappresenterà l’unico vero ostacolo al sogno indipendentista catalano e, comunque andranno le cose, peserà come un macigno sui futuri rapporti tra Barcellona e Madrid.
Una mediazione europea, sulla quale si è già espresso favorevolmente Puigdemont, non sembra possa avere successo. La Spagna è membro UE e in quanto tale sbilancerebbe ogni posizione della stessa Unione sulla questione. La Catalogna, invece, rendendosi indipendente dovrebbe ricominciare il processo di adesione all’UE da zero, con possibilità quasi nulle di successo nel breve e medio termine (per via del prevedibile veto di Madrid al suo ingresso). Servirebbero attori più imparziali, ma è rischioso cercarli al di fuori dell’Europa. Gli Stati Uniti di Trump, formalmente a favore dell’unità nazionale spagnola, non avrebbero nulla da perdere da un’ulteriore frammentazione europea. E lo stesso si potrebbe dire per gli altri pesi massimi, Russia e soprattutto Cina.
In fondo, come ha sottolineato la stessa Commissione Europea, si tratta di una questione interna alla Spagna, e in quanto tale dovrebbe essere affrontata e risolta, senza alcun intervento esterno (a meno di gravi escalation).
La proclamazione unilaterale d’indipendenza ormai è pressoché inevitabile. Gli stessi catalani, per quanto consapevoli delle conseguenze, non possono più tirarsi indietro senza commettere un autogol politico. Molto invece dipenderà dal governo centrale di Madrid. Escluso un cambio al vertice del potere, l’unica chance per una ricomposizione arriverebbe da un ravvedimento ed un immediato cambio di rotta sulla questione catalana. Un approccio più aperto al dialogo e al compromesso non sarebbe impossibile, né lederebbe la dignità dei due interlocutori. Urgono, da entrambe le parti, coraggio politico e senso di responsabilità. Ma finora sono mancati all’appello.
Pietro Figuera
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