Cassazione: la gelosia morbosa configura il reato di maltrattamenti
“Assillare costantemente il coniuge con continui comportamenti ossessivi e maniacali ispirati da gelosia morbosa è un maltrattamento“. Lo ha stabilito la Cassazione, che ha annullato l’assoluzione dall’accusa di maltrattamenti per un uomo siciliano che faceva pressione sulla moglie in tutti i modi per convincerla ad abbandonare il lavoro di assistente di volo in quanto, a suo dire, “non adatto a donne per bene”.
L’uomo era stato assolto nel maggio 2014 dalla Corte d’appello di Palermo che però lo aveva condannato per stalking a causa di alcuni sms minacciosi alla consorte. La motivazione dell’assoluzione per i maltrattamenti faceva riferimento ad una “vita di coppia caratterizzata da animosità” e alla mancata “consapevolezza del soggetto di causare alla moglie un turbamento psichico e morale”.
Ma la Cassazione non ha condiviso questa valutazione sostenendo che “continui comportamenti ossessivi e maniacali, quali l’insistente contestazione di tradimenti inesistenti, la ricerca incessante di tracce di relazioni extra-coniugali con ispezione costante del telefono della donna, la verifica degli orari di rientro a casa e il controllo degli spostamenti” determinavano “importanti limitazioni e condizionamenti nella vita quotidiana e nelle scelte, nonché un intollerabile stato d’ansia“. Gli atteggiamenti eccessivamente gelosi tenuti dall’uomo sono stati giudicati attinenti alla “vessazione psicologica“, punita dall’art. 572 del codice penale con la reclusione da due a sei anni.
La vicenda di questa coppia non è però conclusa, perché se da un lato la Cassazione ha annullato con rinvio l’assoluzione per maltrattamenti, dall’altro ha disposto la riapertura dell’istruttoria dibattimentale. L’uomo ha specificato infatti che la denuncia della moglie era giunta successivamente alla presentazione del conto da 300mila euro nella causa civile che lui aveva intrapreso contro i suoceri “per il mancato pagamento delle retribuzioni quale dipendente della loro società”.
La Cassazione ha quindi ritenuto che questo particolare possa evidenziare “la sussistenza di motivi di astio dell’accusante e dei suoi familiari chiamati a deporre a riscontro, nei confronti dell’imputato” e non può di conseguenza essere considerato elemento ininfluente ai fini della valutazione di attendibilità della donna.